Idee Persone con disabilità
Il paradosso dell’inclusione: quando l’accessibilità diventa decorativa
L'intervento del direttore della Consulta per le Persone in Difficoltà: «L’inclusione, quella vera, non si misura in centimetri, maniglioni o caselle spuntate. Si misura in partecipazione, altrimenti il rischio è quello del disabilty washing»

Oggi è quasi impossibile imbattersi in un ente, un’azienda o un evento pubblico che non parli di inclusione. È diventato un termine rassicurante, da inserire nelle presentazioni, nei bilanci sociali e nelle dichiarazioni d’intenti. Eppure, mai come oggi, l’inclusione rischia di essere solo un’etichetta apposta su pratiche vuote, incoerenti o addirittura dannose.
Nel mondo della disabilità questo fenomeno ha un nome preciso, anche se raramente viene pronunciato: disability washing. Ovvero, la rappresentazione fittizia, strumentale o approssimativa della disabilità come elemento già incluso, quando in realtà non lo è. Il più delle volte non si tratta di una truffa consapevole. Al contrario, è spesso l’effetto collaterale di una cultura che si accontenta della norma e rimuove la domanda più importante: “Per chi stiamo progettando davvero?” In buona fede – e talvolta con l’alibi della legge – si perpetua un’accessibilità che esiste solo sulla carta: fatta di interpreti Lis “a beneficio di tutti i sordi”, di bagni accessibili “perché lo dice il regolamento”, di assunzioni obbligatorie “perché lo impone la legge 68”. Ma dietro a queste pratiche spesso si nasconde l’assenza totale di ascolto, di confronto, di domande. Di umanità. Questo articolo nasce per raccontare proprio questo: le contraddizioni dell’accessibilità che si ferma alla superficie, i danni culturali che produce, e il potenziale inespresso che ogni spazio, servizio o progetto potrebbe invece offrire se davvero partisse da chi lo vive.

Quando l’accessibilità diventa facciata
Ci sono situazioni in cui la distanza tra ciò che si dichiara e ciò che si fa diventa quasi grottesca. Si parla di inclusione, di diritti, di “pari opportunità” ma nei fatti, si mettono in campo soluzioni che servono più a dimostrare qualcosa che a rispondere a un bisogno reale.
Il caso Lis: Sempre più amministrazioni prevedono l’interprete LIS durante conferenze, video istituzionali, eventi pubblici. Ma quanti sanno davvero che in Italia solo una piccola minoranza di persone sorde usa la Lis come unico mezzo di comunicazione? Si parla di circa 80mila segnanti su una popolazione di 6-7 milioni di persone sorde o ipoudenti. La presenza dell’interprete è importantissima per chi ne ha bisogno, ma non può essere l’unica misura adottata. Se mancano i sottotitoli, le trascrizioni, le informazioni visive accessibili, la comunicazione diventa selettiva e parziale. In quei casi, l’interprete non è inclusione, ma alibi. E, troppo spesso, bandierina mediatica.
I bagni “a norma”: I bagni per persone con disabilità vengono allestiti secondo i regolamenti, con una sfilza di maniglioni che spesso neanche servono o sono duplicati senza logica. Lo specchio, quando c’è, è piazzato troppo in alto per una persona in carrozzina. Mancano spazi reali di manovra o l’altezza del lavandino è inadeguata. Ma teoricamente il bagno è “a norma”. Nessuno si è chiesto, semplicemente: “Chi lo userà? Come lo userà?”
I musei “accessibili”: Capita di entrare in un museo che dichiara piena accessibilità, ma poi ci si trova davanti a teche alte, testi piccoli o esposti fuori portata visiva, mancanza di audio-guide alternative, o percorsi logoranti senza punti di sosta. Il museo è accessibile all’ingresso, ma non nella fruizione. È accessibile alla legge, non alla persona.
Il mondo del lavoro: Anche l’inclusione lavorativa si presta a questo meccanismo. Si assume una persona con disabilità perché “bisogna farlo”. Ma poi nessuno si preoccupa di conoscerne le competenze, le aspirazioni, i limiti o i punti di forza. Non si costruisce un percorso, non si adatta l’ambiente, non si valorizza nulla. Si fa il minimo sindacale, in senso letterale.
Legge ≠ partecipazione
C’è una convinzione radicata – e pericolosa – secondo cui rispettare la legge significa automaticamente includere. È una semplificazione comoda, che deresponsabilizza. Basta spuntare una casella: rampa d’accesso? Fatto. Bagno conforme? Fatto. Interprete LIS? Fatto. Ma la legge, per sua natura, fissa standard minimi. Non può adattarsi a tutte le persone, le situazioni, le specificità. Un ambiente può essere perfettamente conforme alle normative, ma totalmente inadatto a chi lo vive. Essere a norma non significa essere inclusivi. Un luogo è veramente accessibile solo quando consente la partecipazione attiva, libera e dignitosa di chi lo frequenta, a prescindere dalle sue condizioni fisiche, sensoriali o cognitive.
Non è un problema di risorse, né di tecnicismi. È un problema di intenzione. Se manca la volontà di ascoltare, osservare e imparare, nessuna legge sarà mai sufficiente
Eppure, si continua a delegare l’inclusione alla legge o, peggio, al professionista incaricato del progetto. Si dimentica che la prima responsabilità è culturale: è di chi gestisce uno spazio, un servizio, un’attività. Non serve un esperto per porsi una domanda semplice: “La persona che vivrà questo luogo potrà usarlo, capirlo, parteciparvi senza ostacoli?” Non è un problema di risorse, né di tecnicismi. È un problema di intenzione. Se manca la volontà di ascoltare, osservare e imparare, nessuna legge sarà mai sufficiente.
Il nodo della responsabilità
Uno degli equivoci più diffusi nel campo dell’accessibilità è che “ci penserà qualcun altro”. Il progettista, il tecnico, il consulente. Oppure, nella migliore delle ipotesi, la normativa. Ma l’inclusione non si realizza per delega: è una responsabilità che parte da chi ha il potere di decidere, di impostare, di organizzare. Chi gestisce un esercizio commerciale, un museo, un servizio pubblico, chi organizza un evento o lavora nella pubblica amministrazione, non può chiamarsi fuori. L’accessibilità non è una voce di bilancio, né un intervento tecnico: è una scelta culturale. E non serve essere esperti di disabilità per cominciare. Basta porsi delle domande. Come si muoverà una persona in carrozzina in questo spazio? Come seguirà un contenuto una persona sorda? Questo percorso è comprensibile per chi ha una disabilità intellettiva? L’orario, il linguaggio, l’ambiente sono davvero pensati per tutti?
Non è raro, infatti, che il politico di turno – o chi ha una funzione di rappresentanza pubblica – approfitti di queste “azioni simboliche” per mettere la propria bandierina sul tema della disabilità. Basta un evento con un interprete Lis, un’inaugurazione con rampa o la firma di un protocollo per dichiarare di aver fatto qualcosa di grande per l’inclusione. Ma in realtà, così facendo, si convalida nelle stanze decisionali una narrazione sbagliata: quella per cui l’accessibilità sia una questione risolvibile con gesti isolati, con soluzioni universali, senza ascolto né profondità. E questa è forse la responsabilità più grave: trasformare una questione reale in una passerella di buone intenzioni.
La legge come alibi? Il paradosso italiano
L’Italia, da un punto di vista normativo, è spesso indicata come uno dei Paesi più avanzati in materia di diritti delle persone con disabilità. Dalla legge 104/92 alla 68/99, fino al recepimento della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, esiste un corpus giuridico vasto, articolato, apparentemente in grado di garantire tutele e pari opportunità in ogni ambito della vita. Eppure, è proprio in questa abbondanza normativa che si annida una delle contraddizioni più profonde: la legge viene citata spesso, ma applicata raramente fino in fondo. Il diritto allo studio, alla partecipazione culturale, sportiva e turistica, alla vita autonoma, al lavoro, alla mobilità, all’informazione – tutti questi diritti sono sanciti nero su bianco. Ma quante persone con disabilità riescono davvero a viverli in modo pieno, quotidiano, libero?
La verità è che, senza un impegno reale nell’applicazione delle leggi, scrivere nuove norme rischia di diventare un esercizio ipocrita. Un modo per mostrare attenzione al tema, per “mettere la firma” su un diritto, senza poi preoccuparsi della sua effettiva realizzazione. È il classico caso in cui la legge diventa un alibi, un paravento dietro cui nascondere l’inerzia, l’assenza di ascolto, la mancanza di coraggio nel trasformare davvero i contesti. E così, anche un diritto proclamato diventa un privilegio da conquistare ogni volta. Non basta più citare le normative: serve costruire le condizioni perché siano realmente efficaci.

Serve formazione obbligatoria per chi decide
C’è una domanda che in pochi hanno il coraggio di porre: chi prende decisioni sulla disabilità sa davvero di cosa sta parlando? Troppo spesso la risposta è no. Si legifera, si finanzia, si approva, si inaugura – ma senza un’adeguata preparazione, senza aver compreso il senso profondo dell’inclusione. E così, il rischio è che ogni buona intenzione si trasformi in danno culturale, in esclusione mascherata da diritto. Per questo, serve un cambiamento radicale: ogni rappresentante politico, ogni dirigente pubblico, ogni amministratore dovrebbe essere obbligato a seguire un percorso formativo sui temi della disabilità, prima di iniziare il proprio mandato. Non un seminario simbolico, ma un vero corso, strutturato, articolato, che affronti la disabilità in tutte le sue dimensioni: lavoro, scuola, tempo libero, mobilità, cultura, turismo, comunicazione. Un corso che non si limiti a presentare le leggi esistenti – spesso già ben note nelle loro premesse – ma che faccia toccare con mano ciò che manca, ciò che non funziona, ciò che andrebbe ascoltato prima di essere regolamentato.
Un consigliere regionale, un assessore comunale, un deputato o un ministro non possono formarsi sul campo mentre già ricoprono un ruolo istituzionale. Quando arrivano a capire davvero, spesso è troppo tardi. E nel frattempo, le persone con disabilità hanno pagato il prezzo della loro inesperienza. È ora di invertire la rotta. Perché nessun cambiamento sarà possibile se chi decide continua a non sapere, o a sapere troppo tardi. Solo così potremo smettere di scrivere leggi ben intenzionate ma inefficaci – e iniziare finalmente a costruire cultura e partecipazione.
L’inclusione è cultura, non adempimento
L’inclusione non si costruisce con i moduli, i bandi o i progetti da approvare “a norma”. Si costruisce con lo sguardo, con l’ascolto, con la disponibilità a mettere in discussione ciò che si è sempre fatto. L’accessibilità autentica non è una prestazione tecnica, ma un atto di responsabilità culturale. È più facile mettere un interprete Lis in un video che chiedersi se quel contenuto sarà fruibile dalla maggioranza delle persone sorde. È più semplice installare una rampa che rivedere un’intera esperienza d’uso. È più comodo assumere una persona con disabilità perché richiesto dalla legge che cambiare il modo in cui si gestisce un team.
È più comodo assumere una persona con disabilità perché richiesto dalla legge che cambiare il modo in cui si gestisce un team
Ma ogni volta che si agisce solo per dovere, si tradisce lo scopo dell’accessibilità. Si crea una facciata, una messinscena, un’inclusione che esiste solo nella documentazione. Per superare tutto questo serve un cambio di mentalità. Un museo può essere veramente accessibile solo se si mette nei panni della persona che lo visiterà. Un servizio è inclusivo quando nasce da una domanda vera: “A chi è rivolto? Cosa rende possibile o impossibile la partecipazione?”
In fondo, non si tratta di fare di più. Si tratta di fare diversamente. Di passare dal rispetto della norma al rispetto della persona. Perché l’inclusione, quella vera, non si misura in centimetri, maniglioni o caselle spuntate. Si misura in partecipazione. E si misura anche nel tempo.
Perché ogni conquista, ogni passo in avanti, dovrebbe diventare patrimonio stabile e condiviso. E invece, troppo spesso, si è costretti a ricominciare da capo. Si organizza un concerto con la presenza di interpreti LIS e sottotitoli per le persone sorde e ipoudenti – ed è un successo, si crea una rete di collaborazione, si definiscono buone prassi. Ma all’evento successivo, come se nulla fosse accaduto, si torna indietro. Nessuna traccia, nessuna continuità. Peccato: quel piccolo grande passo poteva diventare la nuova regola. Invece resta un’eccezione. È questo il vero fallimento culturale: non saper costruire memoria. Non fare dell’esperienza inclusiva un precedente strutturale, replicabile, acquisito. Cambia il referente, cambia l’assessore, cambia il direttore – e si azzera tutto. Come se l’inclusione fosse solo il frutto di una volontà personale, e non un tratto identitario di un’organizzazione. Troppi ambiti – dalla scuola al lavoro, dalla cultura al turismo – si reggono ancora sull’impegno di pochi. Ma finché l’inclusione dipenderà da singoli illuminati, resterà fragile e temporanea. Ecco perché l’inclusione non può dipendere dai singoli. Deve diventare cultura diffusa, sistema, visione. Solo così smetteremo di rincorrere la norma e inizieremo a costruire normalità.
Foto di Nathan Anderson su Unsplash
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