Idee Inclusione

Bagni per persone con disabilità: le etichette e le barriere che fingiamo di abbattere

Avete mai guardato bene le porte di un bagno pubblico? Uomini. Donne. E… disabili. Eccola qui, tutta la nostra società: etichette. Categorie. Recinti. Le leggi sono importanti, ma sono diventate un alibi. Ci nascondiamo dietro un regolamento per non cambiare davvero. Ci accontentiamo di mettere un cartello “accessibile” senza domandarci se stiamo progettando davvero “per tutti”

di Giovanni Ferrero

Avete mai guardato bene le porte di un bagno pubblico? Uomini. Donne. E… disabili. Eccola qui, tutta la nostra società: etichette. Categorie. Recinti. Come se le persone con disabilità fossero un gruppo a parte, né uomini né donne, un’eccezione da gestire con spazi speciali.  Settant’anni fa poteva forse avere un senso. Le persone con disabilità cominciavano appena a uscire di casa, ad andare a scuola, a lavorare. La società non era abituata a incontrarle, e le guardava come extraterrestri. Ma oggi? Perché continuiamo a raccontare questa storia? 

Oggi per fortuna troviamo delle progettazioni più “illuminate”, quelle che scoprono il design universale, ogni tanto propongono bagni uomini accessibili e bagni donne accessibili. Ma perché ogni tanto e non da subito? Perché finché ragioniamo con etichette, sigle, perfino con la volontà di “autodefinirci”, continueremo a produrre norme, pensieri e progetti figli delle etichette. E quindi mai veramente coesi, mai davvero per tutti. 

E qui la domanda scomoda: “non è che, nel tentativo di affermare diritti e ottenere visibilità, stiamo noi stessi contribuendo a creare altre etichette?” 

Ogni giorno c’è una “giornata per”. Dal Disability Pride, alla giornata per la consapevolezza dell’autismo, alla giornata mondiale della sindrome down, alla giornata mondiale del Sordo e così via. Tutti eventi necessari per far emergere discriminazioni, certo. Ma non rischiamo di mandare il messaggio che siamo gruppi separati, ognuno con la propria battaglia, ognuno chiuso nella propria definizione?  Non rischiamo – noi per primi, come soggetti del Terzo settore e come enti che fanno advocacy – di rafforzare le barriere che diciamo di voler abbattere? “Non stiamo forse dimenticando di raccontare che, prima di ogni sigla, siamo tutte persone?”. E non parlo solo da osservatore. Sono figlio di una persona con disabilità. Da bambino non sono mai entrato in bagno con mio padre, come succede in tante famiglie. Io “nel bagno degli esseri umani”, lui “in quello dei disabili”. È un ricordo che brucia ancora oggi: il bagno è davvero lo specchio della nostra società.  Un bagno pensato non per vedere la persona, ma per rispondere a norme. Maniglioni dappertutto, il classico water col buco in mezzo, e – se va bene – lavandini e specchi reclinabili “per handicappati”, altrimenti senza specchio o alto. Ma mio padre non era un handicappato. Era un uomo.  Era il mio supereroe. Perché è più facile mettere un’etichetta che usare la testa. Crescendo, impariamo pregiudizi e stereotipi. Ci abituiamo a non vedere la persona davanti a noi, ma la categoria. Quando qualcosa non lo conosciamo, ci spaventa. E invece di ragionarci, facciamo una legge. 

Una legge che impone il bagno per disabili. Una legge che impone la stanza in hotel. Una legge che impone l’accesso a quel luogo. Le leggi sono importanti, ma sono diventate un alibi. Ci nascondiamo dietro un regolamento per non cambiare davvero. Ci accontentiamo di mettere un cartello “accessibile” senza domandarci se stiamo progettando “per tutti”. 

Ogni etichetta usata come punto di arrivo è una barriera. Lo ripetiamo: una barriera. Dice “tu sei diverso, per te dobbiamo fare qualcosa di speciale”. Invece di chiederci: come faccio a creare qualcosa che funzioni per chiunque?

La verità è che la società – cioè noi – preferisce non guardare. Non vedere. Non sentire. È incredibile: ci diciamo inclusivi ma siamo noi a perpetuare la divisione. Invece di trovare sempre una nuova etichetta, o trovare una nuova giornata nazionale o internazionale dovremmo semplicemente vedere nell’altro una persona che a seconda delle sue esigenze la società trova le giuste soluzioni, i giusti anche compromessi affinché questa persona possa partecipare alla vita sociale, lavorativa, ecc.

Persona punto e basta. Poi a seconda del tipo di soluzione da attivare dal punto di vista progettuale, assistenziale, sanitario, scolastico ecc è opportuno declinate la sua esigenza entrando nel particolare: persona con spettro autistico medio ecc. Altrimenti rimane, è una persona e non una etichetta sempre e solamente. Eppure basterebbe tornare allo sguardo dei bambini. Loro non hanno etichette. Se un compagno è in carrozzina, trovano un modo per farlo giocare. Non servono corsi, testimonial, protocolli. È ovvio. È naturale. Siamo noi che ci siamo complicati la vita. Siamo noi che abbiamo costruito barriere. Siamo noi che ci nascondiamo dietro leggi e cartelli per non usare le nostre sinapsi. 

Finché non smetteremo di etichettare, continueremo a fingere di includere. E a escludere davvero. 

L’autore di questo articolo è il direttore della Consulta per le Persone in Difficoltà

Credit foto: Pexels

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