Arte che cura
Cancro e adolescenza: mettere in scena il dolore con ironia
Le ragazze e i ragazzi del Progetto Giovani dell'Istituto nazionale dei tumori Int di Milano salgono sul palco e presentano la loro serie tv. «I protocolli di cura non bastano» spiega Andrea Ferrari, oncologo pediatrico responsabile del progetto. «C’è un modo di pensare al rapporto medico-paziente del tutto diverso, nel nostro reparto», dove offriamo anche «uno spazio in cui sentirsi visti, riconosciuti, accompagnati»

Di storie ne abbiamo sentite tante. Ma alcune entrano in silenzio e restano. Come quelle dei ragazzi del Progetto giovani dell’Istituto Nazionale dei Tumori Int di Milano, che con la loro sitcom “Ho preso un granchio” hanno portato al Giffoni Film Festival non solo il frutto di un laboratorio creativo, ma un manifesto umano, ironico e potente su cosa significhi attraversare la malattia – e reimparare a ridere, nonostante il dolore e la paura.
Loro, i ragazzi in cura presso la Pediatria Oncologica dell’Istituto, diretta da Maura Massimino, hanno davvero ‘preso un granchio’. Ma l’hanno trasformato in teatro, musica, video e ora in una serie brillante, scritta e recitata da giovani pazienti oncologici sbarcata nella 55ª edizione del Giffoni con un episodio inedito, girato negli studi di Caduta Libera con Gerry Scotti. E lì, nella Sala Truffaut, non si è visto solo un video: si è respirato un modo nuovo di raccontarsi. Senza retorica. Con il coraggio di chi sorride – o persino ride – mentre combatte.

Leggerezza e nuove responsabilità
«Quando mi hanno diagnosticato il tumore, sentivo addosso una pressione tremenda», racconta Riccardo, ideatore e protagonista dell’episodio presentato a Giffoni. «Così ho creato la C-Card, la Cancer Card: una specie di jolly da usare quando tutto è troppo. Un’arma ironica. Con quella carta potevo saltare interrogazioni, convincere mia mamma a comprarmi il Mac, scegliere il posto davanti in macchina con gli amici. Nessuno dice di no a un ragazzo di 16 anni con il cancro». Sembra una battuta. E lo è. Ma è anche un modo lucidissimo di prendere in mano la narrazione della propria malattia, ribaltare i ruoli, riconquistare uno spazio di potere laddove sembra esserci solo vulnerabilità. Riccardo oggi ha finito le cure, ma ogni mercoledì torna in reparto. «Il Progetto Giovani è diventato un impegno, una responsabilità. Noi ex pazienti andiamo lì per portare qualcosa agli altri. A volte anche solo per stare insieme e quel tempo condiviso è una cosa che cura davvero».
Il Progetto Giovani è diventato una responsabilità. Noi ex pazienti andiamo lì per portare qualcosa agli altri.
Riccardo
Essere liberi dentro al copione
Anche Giorgia ha portato la sua voce al Giffoni. Per lei, salire sul palco della Truffaut «è stato come vivere qualcosa che prima non riuscivo nemmeno a immaginare. Per la prima volta non stavo parlando della malattia: stavo parlando di una serie, di un progetto creativo. Mi sono sentita libera». Nel Progetto Giovani, Giorgia ha trovato molto più di un laboratorio. «Quando sei in cura – racconta – ti sembra che tutto il resto si fermi. Invece lì dentro, in quella stanza, si crea qualcosa. Si crea bellezza. E la cosa straordinaria è che puoi essere fragile e potente allo stesso tempo. In una sitcom, puoi ridere di te stessa e sentirti finalmente capita».
Per la prima volta non stavo parlando della malattia ma di un progetto creativo. Mi sono sentita libera
Giorgia
Un diverso rapporto medico-paziente
Il deus ex machina del Progetto Giovani è Andrea Ferrari, medico di Int: «Abbiamo imparato tanto dai nostri ragazzi, in questi anni. Abbiamo imparato che il nostro sapere, i nostri protocolli di cura, sono certo fondamentali, ma non bastano. Dobbiamo metterci il cuore, imparare a stare accanto ai nostri pazienti non solo come medici, ma come adulti che per professione si ritrovano a camminare accanto ai giovani pazienti in questo momento così particolare della loro vita. C’è un modo di pensare al rapporto medico-paziente del tutto diverso, nel nostro reparto. Qui davvero si umanizza la cura. Tutti i professionisti – medici, infermieri, psicologi, educatori – hanno uno spirito diverso».
Dai nostri ragazzi abbiamo imparato tanto, anche che i nostri protocolli di cura, certo fondamentali, non bastano
Andrea Ferrari
Ferrari ricorda come sia stato questo approccio che caratterizza il Progetto Giovani ad aver permesso all’iniziativa di diventare un modello per altre realtà di pediatria oncologica. In Int, c’è «un’équipe che da 15 anni costruisce, ogni anno, qualcosa di nuovo. Contro ogni logica di profitto, con lo scopo di dare voce ai ragazzi. In un sistema sanitario che spesso valorizza solo ciò che genera numeri e rimborsi, noi continuiamo a scommettere sull’ascolto» dice Ferrari «Con gratitudine per chi rende possibile tutto questo, in un ospedale pubblico capace di investire tempo, energie e spazio in un progetto come questo».

Una terra di mezzo
Che è cruciale anche da un altro punto di vista, quello di colmare quel vuoto clinico che caratterizza spesso l’adolescenza, terra di mezzo tra la pediatria e l’oncologia dell’adulto. «L’adolescente oncologico è stato per troppo tempo in una ‘terra di mezzo’» spiega Ferrari «né bambino né adulto, spesso escluso dai protocolli specifici. Il nostro lavoro è costruire percorsi che tengano conto della biologia del tumore, non solo dell’età anagrafica, e offrire ai ragazzi il meglio delle cure possibili, insieme a uno spazio in cui sentirsi visti, riconosciuti, accompagnati».
La sitcom “Ho preso un granchio”, prodotta da Fondazione Bianca Garavaglia ets (promotrice da sempre delle iniziative del Progetto Giovani) e promossa da Mediafriends, è diventata un modello anche all’estero. È stata riconosciuta dalla società di pediatria oncologica europea Siop Europe come una forma efficace di supporto terapeutico. La seconda stagione andrà in onda in autunno sui canali Mediaset.
Foto di Int
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