Idee Scuola

Inclusione scolastica: un totem intoccabile o un modello da rifondare?

Per molte famiglie, il solo fatto che il figlio con disabilità possa stare in classe con gli altri viene vissuto come una conquista sufficiente. In parte lo è, se pensiamo alla storia passata di esclusione e scuole speciali. Ma non possiamo fermarci qui: l’obiettivo non può essere solo “stare in classe”, bensì apprendere, crescere e costruire un futuro. Il rischio altrimenti è che il futuro di tanti resti limitato a tirocini senza prospettiva o a una vita nei centri diurni

di Giovanni Ferrero

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Ogni settembre, con l’inizio delle lezioni, torna la stessa domanda: la scuola italiana è davvero inclusiva? Nel 1975, con il “Documento Falcucci”, l’Italia fece una scelta rivoluzionaria: abolire le scuole speciali e inserire gli alunni con disabilità nelle classi comuni. Fu un cambiamento culturale enorme, fondato su tre principi: uguaglianza di diritti, centralità della persona e scuola come comunità educante. Quella scelta ci rese un modello internazionale. Ma oggi, a cinquant’anni di distanza, quel modello funziona ancora?

In Italia metterlo in discussione sembra quasi un sacrilegio. Lo si difende come fosse perfetto. Ma un conto è il principio, un altro è la pratica quotidiana. Il dibattito si concentra quasi sempre sulle ore di sostegno. Quante? Con quale continuità? La legge dice che ogni docente è responsabile dell’apprendimento dell’intera classe, compresi gli alunni con Bes (Bisogni Educativi Speciali) e con disabilità. In realtà troppo spesso il sostegno diventa un’isola separata, a cui viene delegata l’inclusione. Oggi almeno un alunno su due ha bisogni “atipici”: più del 20% presenta una forma di neurodivergenza – Dsa (Disturbi Specifici dell’Apprendimento), Adhd (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività), autismo o Fil (Funzionamento Intellettivo Limite) – a cui si aggiunge circa il 4% di studenti con disabilità certificata. La scuola italiana, che lo voglia o no, è già la scuola della diversità. Eppure la formazione è minima, le risorse scarse e i Pei (Piani Educativi Individualizzati) restano spesso solo burocrazia.

Un altro nodo è il voto. Troppo spesso la scuola misura solo i risultati, dimenticando che il suo compito non è soltanto insegnare nozioni, ma formare persone. E formare persone significa anche farle crescere felici. Per molti bambini la scuola è l’unico luogo in cui trovano ciò che manca in famiglia o nella società: relazioni, stimoli positivi, senso di appartenenza. Se la scuola non riesce a garantire tutto questo, rischiamo di crescere generazioni che studiano senza entusiasmo e vivono senza motivazione. La prima responsabilità della scuola dovrebbe essere questa: insegnare a stare insieme, a vivere con gli altri a prescindere dalle differenze. L’inclusione non è un favore agli alunni con disabilità, ma la condizione per crescere cittadini più responsabili.


Troppo spesso però “inclusione” significa solo presenza in classe. Ma un alunno isolato accanto al suo insegnante di sostegno non è davvero incluso. È come un museo che ha la rampa all’ingresso ma non mette a disposizione strumenti tattili o audioguide per visitatori ciechi: formalmente accessibile, ma sostanzialmente è solo facciata. Per molte famiglie – comprensibilmente, dopo anni di battaglie – il solo fatto che il figlio con disabilità possa stare in classe con gli altri viene vissuto come una conquista sufficiente. E in parte lo è, se pensiamo alla storia passata di esclusione e scuole speciali. Ma non possiamo fermarci qui: l’obiettivo non può essere solo “stare in classe”, bensì apprendere, crescere e costruire un futuro.

Alla Consulta per le Persone in Difficoltà e con la Fondazione di Ricerca Hpl, lavoriamo da anni su questi nodi. Entriamo nelle scuole primarie per dare agli insegnanti strumenti di osservazione e metodologie di potenziamento cognitivo. L’obiettivo è semplice: che tutti possano davvero imparare, non solo “stare dentro”. Ma servono cambiamenti strutturali: formazione obbligatoria e continua per tutti i docenti; coinvolgimento dell’intera comunità scolastica, dai dirigenti ai collaboratori; Pei realmente condivisi con famiglie e realtà del Terzo settore; una nuova figura stabile all’interno della scuola, il Disability Manager Scolastico, a supporto di insegnanti e dirigenti.

Forse dobbiamo superare il dogma. Per molti studenti l’inserimento in classe è la via migliore. Per altri può servire un percorso diverso, in piccoli gruppi guidati da professionisti con strumenti adeguati. Ma sempre intrecciato con momenti comuni, dove socializzazione, responsabilità ed empatia siano vere e proprie “materie scolastiche”. Con i giusti supporti, molti di questi ragazzi possono diventare cittadini attivi e lavoratori: lo dimostra la storia di Jason Arday, oggi professore a Cambridge. Diagnosticato con un grave disturbo dello spettro autistico e un ritardo dello sviluppo, ha iniziato a comunicare con la lingua dei segni solo a 11 anni e a scrivere a 18. Grazie al supporto personalizzato di insegnanti e familiari ha conseguito un dottorato e smentito ogni previsione. Se invece la scuola non lavora sul reale apprendimento, il rischio è che il futuro di tanti resti limitato a tirocini senza prospettiva o a una vita nei centri diurni.

Vogliamo continuare a difendere un modello che, nella pratica, troppo spesso fallisce? O abbiamo il coraggio di ripensare l’inclusione scolastica, mettendo al centro non la sola presenza, ma il diritto all’apprendimento e alla felicità? Il cambiamento è possibile, ma dipende dalle scelte che facciamo oggi come scuola, come famiglie e come società.

Foto Matteo Secci / LaPresse

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