Idee Capitalismi
L’economia sociale non è redistribuzione della ricchezza, è cambiamento delle regole del gioco
L’economia sociale non è solo un settore da incentivare, è un modo diverso di fare le cose: reinveste il valore aggiunto, adotta logiche partecipative, non mette il profitto al primo posto. Non si tratta di dire chi è “dentro” e chi è “fuori”, ma di portare questi principi dentro tutta l’economia: digitale, abitare, cura, socialità, democrazia

Abbiamo dato i natali all’economia civile, eppure oggi dobbiamo importare da Bruxelles la spinta per promuovere l’economia sociale. È un paradosso, se pensiamo che le nostre città sono nate attorno a una certa idea di economia come spazio di conversazione e di legami: le piazze con il mercato, il municipio, la chiesa — beni pubblici, beni privati e beni relazionali intrecciati — erano i luoghi dove l’economia prendeva forma come fatto sociale. Oggi quei “progettare il centro” è troppo spesso diventato un esercizio di speculazione o gentrificazione: luoghi dove si consuma ma non si vive. Sappiamo bene che in Italia l’economia sociale è tutt’altro che marginale: 400mila organizzazioni, l’8% del Pil, 1,5 milioni di addetti e oltre 5 milioni di volontari. Eppure la trattiamo come un orpello. Se togliessimo l’economia sociale dalla nostra vita quotidiana non sparirebbero solo dei servizi, sparirebbe l’anima dei territori. Resterebbe un Truman Show di contatti senza legami, tutto scorre, ma niente cambia. Guardare all’economia sociale non è beneficenza, è politica. Non basta redistribuire diversamente: bisogna cambiare le regole del gioco. Abbiamo separato l’economico dal politico, i mezzi dai fini, e ci siamo ritrovati con un sistema che massimizza ciò che è utile e poi fa azioni riparatorie. Abbiamo spezzato il legame tra ricchezza e solidarietà, tra competitività ed equità. È tempo di ricomporli: comunità operosa e comunità della cura. Come ricordava Becattini, “l’economia è un fatto sociale”, e Hannah Arendt lo avrebbe detto così: la politica non è governo, è partecipazione, pluralità, agorà. Non stupiamoci se oggi non si vota più: abbiamo desertificato la partecipazione e depoliticizzato l’economia. Mentre noi discutiamo, l’Europa ha fatto dell’economia sociale un pilastro: piano Ue nel 2021, Ilo, Onu, Ocse, raccomandazioni, tavoli al Mef, piani metropolitani e leggi regionali.
Il punto è che non basta riconoscerla come “settore”: l’economia sociale deve diventare una postura, un modo diverso di creare valore. Come scriveva Walras già nel 1873: “Quando porrete mano alla ripartizione della torta, non potrete ripartire le ingiustizie commesse per farla più grande”. La questione dell’equità non va affrontata dopo, ma prima della creazione del valore. La politica deve agire sulla predistribuzione, non solo sulla redistribuzione. Serve una governance plurale guidata da un’idea di valore pubblico, o continueremo solo a rammendare le disuguaglianze. Il nostro welfare comunitario, il nostro Bes, il nostro sistema manifatturiero vivono di infrastrutture sociali, luoghi, cultura, relazioni. È grazie a questa linfa che il Paese regge: dalle esperienze di Basaglia alle cooperative di comunità, dalle comunità energetiche al mutualismo fra abitati, produttori e consumatori.

Sono storie di innovazione nate dal rischio e dalla responsabilità collettiva. L’economia sociale non crea solo servizi, crea beni comuni. Non governa, ma genera governance tra soggetti diversi: e il bene comune non è la somma dei beni individuali, ma ciò che nasce dalla relazione tra soggetti orientati a un bene condiviso. L’economia sociale non è solo un settore da incentivare, è un modo diverso di fare le cose: reinveste il valore aggiunto, adotta logiche partecipative, non mette il profitto al primo posto. Non si tratta di dire chi è “dentro” e chi è “fuori”, ma di portare questi principi dentro tutta l’economia: digitale, abitare, cura, socialità, democrazia. Sono tutti dilemmi cooperativi, e le politiche pubbliche sono decisive. Serve uscire dalla logica settoriale, burocratica e riparatoria: gli incentivi devono andare alle relazioni, alle infrastrutture sociali, alle nuove istituzioni. Serve cambiare le regole del gioco, generare nuove risorse e potenziare le comunità. La debolezza della democrazia nasce dall’erosione dei processi di mutualizzazione. Il mutualismo nasce da utopisti mossi dal desiderio, da chi costruisce imprese collettive con orizzonti di impatto sociale, convinto che la felicità sia — come per loro — un fenomeno di comunità. Scriveva Tocqueville: “Il dispotismo vede nella separazione fra gli uomini la garanzia della sua permanenza. Il despota perdona ai suoi sudditi di non amarlo, a patto che essi non si amino tra loro.” Ecco: l’economia sociale è, prima di tutto, un modo per tornare a essere liberi.
Foto di Randy Fath su Unsplash
Questo articolo è la sintesi del keynote di apertura del Festiva dell’Economia Sociale di San Lazzaro di Savena (in provincia di Bologna)
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