Sicurezza stradale

L’anno nero dei ciclisti: strage, non fatalità

Nei primi otto mesi del 2025, in Italia sono morti 155 ciclisti e 248 pedoni vittime della velocità e della disattenzione alla guida. Luigi Menna, presidente di Fiab, sottolinea l’assenza di interventi strutturali per la sicurezza stradale. Marco Scarponi, della Fondazione Michele Scarponi, invita a cambiare cultura e linguaggio: non sono incidenti, sono morti evitabili. Intanto i fondi Pnrr restano in gran parte inutilizzati. Una riflessione alla vigilia della Settimana Europea della Mobilità, in programma dal 16 al 22 settembre

di Rossana Certini

Nei primi otto mesi del 2025, in Italia, si sono stati registrati 155 decessi tra i ciclisti: erano 136 l’anno scorso nello stesso periodo. Un dato allarmante, quello registrato dall’Osservatorio Asaps-Sapidata, che segna un aumento delle vittime del 14%. Altri sette ciclisti sono morti negli incidenti già avvenuti a settembre.

Per Luigi Menna, presidente della Federazione italiana ambiente e bicicletta – Fiab, «questo aumento non è legato solo alla crescita di ciclo-viaggiatori o ciclisti urbani: il problema reale è l’aumento della pericolosità delle strade e delle modalità di guida. Le persone muoiono per colpa della disattenzione e della velocità».

Agosto il mese più tragico

Tra i ciclisti deceduti, 15 sono stati investiti da pirati della strada, che si sono dati alla fuga senza prestare soccorso. Il mese più tragico è stato agosto, con 30 vittime, un record negativo che non si registrava da almeno otto anni. Il bilancio mensile dei decessi vede: 12 vittime a gennaio, 15 a febbraio, 14 a marzo, 19 ad aprile, 25 a maggio, 21 a giugno e 19 a luglio.

A livello territoriale la Lombardia è la regione più colpita (38 vittime), seguita da Emilia-Romagna (25) e Veneto (21).

Non solo ciclisti, anche i pedoni sono vittime della strada

Parallelamente preoccupano anche i dati relativi ai pedoni, altra categoria estremamente vulnerabile sulla strada. Sempre secondo l’Osservatorio Asaps-Sapidata, nei primi otto mesi del 2025 si sono registrati 248 decessi, un numero in leggero calo rispetto ai 272 dello stesso periodo dello scorso anno. Le vittime sono prevalentemente uomini (162), e quasi la metà dei decessi (128) riguarda persone con più di 65 anni. Il bilancio mensile è di: 43 morti a gennaio, 31 a febbraio, 32 a marzo, 19 ad aprile, 22 a maggio, 31 a giugno, 35 a luglio e 35 ad agosto. A settembre, se ne contano già 11. In questo caso è il Lazio la regione più colpita (40 decessi, di cui 22 solo a Roma), seguita da Lombardia (36), Emilia-Romagna (28), Sicilia (23) e Campania (16).

Sulle strade, però, la distrazione e la velocità alla guida non causano solo vittime, ma anche un numero elevato di feriti, spesso difficili da quantificare con precisione. L’Istat lo scorso 24 luglio ha pubblicato i dati relativi agli incidenti stradali con lesioni a persone avvenuti nell’anno precedente. Si scopre così su un totale di 173.364 incidenti stradali avvenuti nel 2024 il numero dei feriti è stato di 233.853 e quello dei morti è di 3.030.

Di fronte a questi numeri, appare evidente che «la sola riduzione dei limiti di velocità non basta», spiega ancora Menna. «Servono ostacoli fisici: dossi, passaggi pedonali rialzati, “cuscini berlinesi”, quei dossi quadrati in gomma che rallentano le auto senza ostacolare i bus o i mezzi di soccorso. E poi, ovviamente, una buona illuminazione e segnaletica ben mantenuta, a partire dalle strisce pedonali».

Il bambino che va a scuola in bici diventerà un automobilista più attento, più rispettoso. Anche i genitori, quando accompagnano i figli in bici, iniziano a guidare più lentamente

Luigi Menna, presidente Fiab

La sicurezza stradale come diritto

Ma è sufficiente tutto questo per ridurre davvero gli incidenti? Secondo Marco Scarponi, fratello di Michele Scarponi – il ciclista professionista vincitore del Giro d’Italia nel 2011, morto il 22 aprile 2017 in un incidente stradale mentre si allenava vicino a casa, a Filottrano, nelle Marche – la risposta è no.

Dopo la tragica perdita del fratello, Marco ha deciso di trasformare quel dolore in impegno concreto. Ha scelto di tenere viva la memoria non solo come simbolo del ciclismo italiano, ma come strumento per promuovere una nuova cultura della mobilità: più sicura, più sostenibile e più rispettosa delle persone. Nasce così la Fondazione Michele Scarponi, un’organizzazione no profit che lavora su progetti di educazione stradale, sensibilizzazione culturale e trasformazione del linguaggio con cui parliamo della strada.

La sicurezza stradale è un diritto. Non riguarda solo biciclette o pedoni, ma tutti. Abbiamo un Codice della Strada che non è perfetto, ma c’è, eppure facciamo fatica a rispettarlo

Marco Scarponi, Fondazione Michele Scarponi

Spiega Scarponi: «La sicurezza stradale è un diritto. Non riguarda solo biciclette o pedoni, ma tutti. Abbiamo un Codice della Strada che non è perfetto, ma c’è. Eppure facciamo fatica a rispettarlo. Perché? Perché in Italia si rispettano meno le regole rispetto ad altri Paesi europei?».

E aggiunge: «Mancano controlli, sanzioni, educazione. Se anche chi ci governa dice che gli autovelox servono solo “per fare cassa”, o che la gente deve “correre perché va a lavorare”, allora sta legittimando la violazione delle regole. Quando vado nelle scuole, cosa dovrei dire ai bambini? Che l’adulto che distrugge un autovelox è un eroe? Come possiamo costruire una cultura della sicurezza, se chi dovrebbe dare l’esempio la mina ogni giorno?».

Anche Fiab lavora da anni sull’educazione stradale, puntando soprattutto sui più giovani. «Una delle attività che portiamo avanti è il bike to school», spiega Menna. «Lo facciamo attraverso iniziative come il bicibus, gruppi di bambini che vanno a scuola insieme in bici, accompagnati da volontari, oppure il pedibus, dove i bambini si muovono a piedi lungo percorsi sicuri, sempre con accompagnatori adulti». Per Fiab, la bicicletta è uno strumento educativo, infatti, aggiunge Menna: «Il bambino che va a scuola in bici impara a orientarsi, a conoscere le regole. Se il semaforo è rosso, si ferma. Se un compagno ha un problema, si ferma e lo aiuta. Crescendo, diventerà un automobilista più attento, più rispettoso. Anche i genitori, quando accompagnano i figli in bici, iniziano a guidare più lentamente».

Non basta conoscere la segnaletica: serve cambiare la cultura del Paese. Dobbiamo smontare espressioni come “pirata della strada”, “auto impazzita”, “tragico destino”. Tutti modi di dire che deresponsabilizzano chi guida

Marco Scarponi, Fondazione Michele Scarponi

Eppure, a livello istituzionale, i cambiamenti sono lenti. Secondo la valutazione Fiab “Comuni Ciclabili”, tra i 141 Comuni valutati, il 92,9% non ha modificato le linee bicibus negli ultimi anni. Il 41% non ha aggiornato le linee pedibus. Il 53,5% ha mantenuto invariata la situazione delle zone scolastiche.

E questo nonostante le risorse economiche ci siano. La progettazione e manutenzione delle reti ciclabili – urbane e turistiche – è sostenuta anche dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), con oltre 420 milioni di euro stanziati. Tuttavia, ad oggi, solo il 12,8% di questo budget è stato effettivamente speso. Secondo i dati di Fiab per le ciclovie urbane sono stati utilizzati 41,9 milioni di euro, su 120 assegnati, per realizzare circa 100 km di piste ciclabili (a fronte dei 570 km previsti su 149 progetti). Per le ciclovie turistiche, invece, sono stati spesi appena 12 milioni, realizzando solo 50 km su un totale di 1250 km pianificati attraverso 41 progetti.

Ripensare la strada come bene comune

«Nel nostro Paese manca l’idea della strada come bene comune», sottolinea Marco Scarponi. «Quale lingua parla la strada? Quella del più forte. Tutto è progettato per le auto. Il pedone o il ciclista, che pure hanno diritto a starci, sono percepiti come intralcio. E non lo diciamo mai abbastanza: le auto e le moto sono armi. Ma continuiamo a vendere la libertà come velocità, come trasgressione. Non è libertà: è incoscienza. È il frutto di un secolo di cultura dell’automobile. E per cambiare, dobbiamo partire dal linguaggio».

Scarponi insiste: «Usiamo la parola “incidente”, ma è sbagliata. Fa pensare a qualcosa di inevitabile. Ma mio fratello Michele non era nel posto sbagliato: era nel posto giusto, sulla sua bici, per lavoro. Chi ha infranto le regole è l’altro. Per questo, nei corsi che facciamo, partiamo dall’uso delle parole. Non basta conoscere la segnaletica: serve cambiare la cultura del Paese. Dobbiamo smontare espressioni come “pirata della strada”, “auto impazzita”, “tragico destino”. Tutti modi di dire che deresponsabilizzano chi guida. Le parole plasmano la cultura. E una cultura che giustifica tutto non cambierà mai nulla».

Le morti sulla strada sono evitabili, ed è proprio questa consapevolezza a renderle ancora più difficili da accettare. Sono morti violente, improvvise, sempre premature.

Abbiamo le parole “orfano”, “vedovo”, “vedova” ma non esiste un termine per un genitore che perde un figlio investito da un’auto. Questo vuoto linguistico dice molto

Marco Scarponi, Fondazione Michele Scarponi

«Anche se hai 80 anni, se muori per strada, non dovevi morire quel giorno», spiega Marco Scarponi. «Questo genera un impatto devastante su chi resta. I familiari si trovano a vivere quello che viene spesso definito un ergastolo del dolore. E se a morire è un figlio, il dolore è ancora più incommensurabile. Non abbiamo nemmeno una parola per definirlo. Abbiamo “orfano”, “vedovo”, “vedova”, ma non esiste un termine per un genitore che perde un figlio investito da un’auto. Questo vuoto linguistico dice molto».

Secondo Scarponi, la morte su strada è paragonabile a un attentato perché, spiega: «Quando i familiari arrivano sul luogo dell’incidente, spesso si trovano davanti a una scena che somiglia a un’esplosione. Sono momenti fuori dal tempo». E aggiunge «Alcuni di questi familiari hanno realizzato un documentario dal titolo La vita salta. Un’espressione che racchiude perfettamente il senso di ciò che accade: la vita salta, tutto cambia, niente è più come prima. Nemmeno i nomi delle cose». Chi resta, infatti, non ha scelto di essere un “familiare di vittima”. E spesso si ritrova a vivere in una realtà che non comprende la profondità del dolore.

«All’inizio mi faceva rabbia questa indifferenza», racconta Scarponi. «Poi ho capito che è anche umano: se non sei toccato personalmente, è difficile capire. Però chi ha il potere di garantire sicurezza: politica, forze dell’ordine, pubblica amministrazione non può voltarsi dall’altra parte. Deve agire».

E conclude: «I familiari si trovano davanti a due strade: chiudersi, rifugiarsi ai margini della società, cambiare lavoro, famiglia, vita oppure provare a trasformare quel dolore in qualcosa che possa servire anche agli altri. Io ho scelto questa seconda via».

Tutte le foto dell’articolo sono di Fiab

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