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SoS Due Ruote

Basta ciclisti morti, ora tutti a 30 all’ora

La giovane travolta e uccisa due giorni fa a Milano allunga l’elenco dei ciclisti investiti in città. Per Marco Scarponi, segretario generale della Fondazione nata in memoria di suo fratello, ciclista professionista, morto a causa di un incidente, «il problema è anche politico: la cultura italiana è "auto-centrica". Bisogna fare educazione, ridurre la velocità, convincere le persone ad andare in bici, a piedi e con i mezzi pubblici»

di Ilaria Dioguardi

Marco Scarponi è il segretario generale della Fondazione che porta il nome di suo fratello Michele: ciclista professionista, morì nel 2017 a causa di un incidente, mentre si allenava su strada.

Scarponi, cosa si potrebbe fare, a suo avviso, per affrontare nel giusto modo il problema?

Il problema è, da una parte, semplice, dall’altra molto complesso, dipende dal punto di vista da cui si intende guardarlo. Queste tragedie si inseriscono dentro un sistema della mobilità del nostro paese completamente incentrata sull’uso dei mezzi motorizzati. Spesso succede che in strada, poiché si parla un solo linguaggio (delle automobili e dei camion, soprattutto), chi va in bicicletta e a piedi viene visto come un ostacolo o come se non esistesse. Questo è un problema della cultura italiana “auto-centrica”. C’è una scarsa considerazione di chi vive la strada con un mezzo diverso e una cultura della sicurezza stradale che è limitata: non rispettiamo sempre le regole, ma solo quando ci va. Ciò porta a tanti incidenti e a tante vittime. Bisognerebbe limitare l’uso delle auto, prima di tutto, e usarle meglio. Dobbiamo convincere più persone possibili ad andare in bici, con i mezzi pubblici, a piedi: questo renderebbe le città più sicure, più sostenibili e sicuramente con meno vittime.

“Città 30” è una misura che va nella direzione giusta?

Noi della Fondazione Michele Scarponi, insieme ad altre associazioni, come Legambiente e Fiab, abbiamo promosso il disegno di legge “Norme per lo sviluppo delle Città 30 e l’aumento della sicurezza stradale nei centri abitati”, redatto a cura di Andrea Colombo, ex assessore alla Mobilità del comune di Bologna. Dove si sta realizzando, come a Bruxelles, “Città 30” sta dando dei grandissimi risultati, con una forte riduzione degli incidenti e un grande innalzamento della qualità della vita. “Città 30” non è solo una misura che serve a puntare il dito contro la velocità, si sa che andare veloci è la prima causa dei sinistri. Abbassare la velocità è la prima cosa da fare: sembra banale dirlo ma purtroppo bisogna ancora dirlo. “Città 30” vuol dire anche riqualificare lo spazio urbano, avere un’altra visione di città a misura di persona, dove i bambini possono vivere finalmente la strada andando in bicicletta, senza andare incontro a morte certa, come succede oggi. Bisogna allargare i marciapiedi, mettere più segnaletica orizzontale e più verde, rivedere le piazze, le aree vicine alle scuole e ai centri abitati. “Città 30” significa rivoluzionare il nostro approccio alla sicurezza stradale e alla mobilità. Sarebbe un grande passo se venisse realizzato in Italia.

Marco Scarponi nel 2018 ha dato vita alla Fondazione Michele Scarponi, in omaggio al fratello ciclista investito e morto in strada

Voi della Fondazione Michele Scarponi andate nelle scuole a fare educazione ai più piccoli. Quanto è importante?

È fondamentale la cultura stradale nelle scuole, sin da piccoli. Ma bisogna vedere cosa diciamo alle bambine e ai bambini, e cosa trovano fuori dalle scuole. Noi possiamo andare nelle classi a raccontare le strade più sicure del mondo, ma se fuori dall’edificio scolastico trovano la giungla e i primi interpreti di questo individualismo sfrenato sono proprio i genitori è molto difficile: i più piccoli seguono i fatti, non tanto le parole. Bisognerebbe fare educazione nelle scuole, proponendo strumenti diversi, non con l’obiettivo di guidare, un giorno, un’automobile in sicurezza, ma nell’ottica di un’educazione alla mobilità. Dobbiamo capire con i più giovani come si può costruire un’altra mobilità e realizzarla. Andiamo nelle scuole secondarie, di primo e secondo grado, ci stiamo attrezzando per andare anche alle elementari. Bisognerebbe iniziare sin dalle scuole dell’infanzia, in Olanda i bambini vanno a scuola a piedi a 3-4 anni, senza genitori. Non capisco perché gli altri ce la facciano, noi no.

Negli adulti come si potrebbe fare educazione?

Da tanti anni non vedo alcun tipo di pubblicità, di comunicazione in questa direzione. Sono gli adulti il vero problema, bisogna educare alla mobilità anche loro. Di questi temi si parla solo quando succedono tragedie come quella della morte della ciclista 28enne di due giorni fa, quinta vittima a Milano dall’inizio dell’anno. Ogni giorno vengono uccise persone sulle strade. Ci vuole continuità, tra una settimana ci si dimenticherà di questo problema. La politica è la prima a dimenticarsi di tutto, non si capisce perché; dovrebbero essere proprio i politici a risolvere questo problema, che è anche politico. Gli amministratori hanno le loro responsabilità. In un comune come Milano, che si rappresenta come una città all’avanguardia, si sono verificati cinque incidenti stradali in meno di otto mesi, tutti con la stessa tipologia: le vittime sono dei ciclisti. In altri incidenti sono morti dei pedoni travolti mentre camminavano sui marciapiedi e gli assessori, che non fanno nulla, sono ancora al loro posto. Mi chiedo perché.

Il ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili ha affermato più volte di voler riformare il Codice della strada, inasprendo le pene. Cosa ne pensa?

Inasprire le pene non serve per i reati della strada, come purtroppo anche per altri reati. Le pene ci devono essere, ma non è l’innalzamento della pena che cambia il comportamento delle persone, soprattutto sulla strada. Ne abbiamo un esempio con l’omicidio stradale, che non sta dando i frutti che speravamo. Il problema non è nell’utilizzo dei soliti strumenti, che vanno nella direzione di non cambiare nulla. Il problema va affrontato facendo prevenzione, cultura e cambiando gli spazi urbani, mettendoli in mano a veri tecnici professionisti, che sanno cosa fare per il bene pubblico e non privato.

Com’è nata la Fondazione Michele Scarponi?

È nata nel 2018, un anno dopo la morte, anzi l’omicidio, di mio fratello. L’intento iniziale era quello di dare a Michele il giusto omaggio che meritava e che merita: lo ricordiamo ogni giorno con iniziative che vanno nella direzione di salvare vite umane sulla strada. Dopo qualche anno di testimonianza, abbiamo iniziato a creare nostri progetti, prima di tutto educativi. Andiamo in tante scuole, in tutta Italia, a portare un nuovo modo di fare educazione stradale e alla mobilità: non diciamo ai giovani solo di rispettare il Codice della strada, che è alla base di tutto, ma ci andiamo per far capire perché bisogna cambiare il modo di spostarsi. Ci sostengono dei professionisti, altri familiari, educatori, architetti, psicologi del traffico, pedagogisti. In Italia i bambini si muovono molto poco, il nostro è il paese con più minori obesi e sedentari d’Europa, anche su questo bisogna fare molta educazione. Inoltre, nella nostra sede di Iesi riceviamo le persone al nostro sportello. Facciamo progetti dedicati ai familiari delle vittime di violenza stradale. Ci dedichiamo allo sport, abbiamo una scuola di ciclismo, che finanziamo con la Fondazione, guidata dal gruppo ciclistico Michele Scarponi: cresciamo i ragazzi in un’ottica di valori legati alla sicurezza stradale e alla mobilità.

Michele Scarponi, grande ciclista su strada italiano, morto all’età di 37 anni a Filottrano, il suo paese, mentre si allenava

Perché voi invitate tutti a mettere un piede a terra sulla strada?

Michele è stato un un grandissimo scalatore in bici. È stato campione italiano juniores. Da professionista, diventò un gregario di Vincenzo Nibali, contribuì al suo successo al Tour de France e al Giro d’Italia. Portiamo a tutti un messaggio, legato ad un episodio. In una tappa del Giro d’Italia, Michele era primo, si fermò e mise il piede a terra per aspettare Nibali e far vincere il suo capitano. Il piede a terra, che nel ciclismo è un gesto di debolezza, per noi è un gesto di forza. Noi invitiamo tutti a mettere un piede a terra sulla strada, che vuol dire: rallenta, non fare uso di droga e alcol, usa la bicicletta e il mezzo pubblico, non guidare con il cellulare in mano. Con i ragazzi funziona molto questo messaggio. Michele regala ancora tanta energia a tutti. In un incrocio di Filottrano, in provincia di Ancona, mentre si allenava, è stato investito e ucciso, su una strada del nostro paese che aveva percorso un milione di volte, da un autista che guidava un furgone. Sul luogo dell’incidente, abbiamo messo un murales con l’immagine della pappagallina Frankie, che si allenava sempre con lui.


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