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A che servono le sanzioni Ue al Kosovo?

Ieri la Commissione europea ha annunciato un pacchetto di sanzioni contro il governo di Pristina. Per ora sono sanzioni "leggere". L'obiettivo è fare scemare la tensione con la Serbia ma i segnali sul campo purtroppo vanno in direzione opposta, con una radicalizzazione su entrambi i fronti e la sospensione della partecipazione della Bosnia-Herzegovina al processo di Berlino del novembre scorso. E nei Balcani, secondo la ministra degli Esteri kosovara intervistata oggi a Praga, "non si può escludere una nuova guerra"

di Paolo Manzo

Ieri la Commissione europea ha annunciato un pacchetto di sanzioni contro il governo di Pristina che vanno dalla sospensione degli inviti a eventi di alto livello all'interruzione dei finanziamenti Ue per vari progetti nell'ambito del Fondo di investimento per i Balcani occidentali fino allo stop delle visite bilaterali da parte di Bruxelles e degli Stati membri. «C'è un urgente bisogno di una de-escalation e di un ritorno al dialogo facilitato dall'Unione europea sulla normalizzazione», ha dichiarato Gert Jan Koopman, durante la riunione del Comitato per il vicinato e l'allargamento della Commissione Ue. Le sanzioni «sono più un campanello d'allarme che una punizione. A breve termine non avranno alcun impatto, perché influenzano la fornitura di fondi, il processo di adesione e lo svolgimento di incontri diplomatici, e perché il governo kosovaro del premier Albin Kurti ha l'elettorato dalla sua parte», spiega al quotidiano spagnolo ABC Miguel Roán, il direttore di Balcanisms, aggiungendo che però «politicamente sono simbolici, perché mettono pressione sul Kosovo».

Le tensioni tra Kosovo e Serbia sono divampate alcuni mesi fa dopo che i sindaci albanesi di quattro comuni a maggioranza serba sono stati eletti con solo il 3,47% di affluenza dopo che i rappresentanti serbi si erano dimessi in massa dalle istituzioni di queste località rifiutandosi di partecipare al suffragio. La situazione è degenerata quando il governo di Pristina, nonostante le pressioni di Unione Europea e Stati Uniti, a fine maggio ha occupato i municipi con i sindaci «eletti», scatenando la reazione della popolazione serba che ha cinto d'assedio gli edifici pubblici. Gli scontri tra la polizia kosovara, la missione Nato della Kfor e la comunità serba che vive lì, hanno portato al ferimento di 41 militari, tra cui 14 italiani (qui per i dettagli). La minaccia di sanzioni contro il governo di Kurti era già stata accennata durante il vertice della Ue in Moldavia qualche settimana fa, quando l'Armenia e la Francia avevano chiesto che il Kosovo ripetesse le elezioni nei quattro comuni, come anche gli Stati Uniti.

Consapevole di non contare più sul pieno appoggio occidentale, adesso Kurti potrebbe iniziare a cercare partner alternativi, in. primis la Turchia, che ha schierato circa 500 militari nel nord del Kosovo e che presto assumerà il comando della missione Nato. Secondo Arab News, anche se Ankara è tradizionalmente vista come un alleato dei musulmani balcanici, compresi gli albanesi, ciò non significa necessariamente che Erdogan si schiererà con Kurti contro la maggioranza etnica serba nel nord del Kosovo. Non è un segreto che la Turchia mira a diventare uno degli attori stranieri più influenti nei Balcani e dal momento che il dialogo facilitato dall'Ue tra Belgrado e Pristina non ha portato a un allentamento delle tensioni nel nord del Kosovo, Erdogan vede una finestra di opportunità per mediare il conflitto. «Il Kosovo è Turchia e la Turchia è Kosovo» aveva detto il «Sultano» nel 2013, attirandosi forti critiche da Belgrado anche se oggi il presidente serbo Aleksandar Vučić vede Erdogan come un attore che può «aiutare a preservare la stabilità nel nord del Kosovo» e come un «vero amico» della Serbia. Vedremo che succede ma, di sicuro, il presidente turco dovrà coordinerà le azioni dei suoi militari nel nord del Kosovo con gli Stati Uniti, presenti in loco a Camp Bondsteel, la più grande e costosa base militare straniera costruita da Washington in Europa dopo la guerra del Vietnam.

L’unica cosa certa, nonostante le sanzioni di Bruxelles e il nuovo ruolo della Turchia, è che la tensione tra Pristina e Belgrado non accenna a diminuire, anzi. Ieri migliaia di serbi provenienti da tutte le parti del Kosovo hanno festeggiato il Vidovdan, la festa di San Vito, che nella tradizione religiosa e nazionale festeggia la battaglia di Kosovo Polje il 28 giugno 1389 contro gli ottomani. A causa delle tensioni ieri, per la prima volta dal 1999, non c'è stata alcuna cerimonia a Gazimestan, il monumento che commemora l’evento noto anche come la battaglia della Piana dei Merli. I serbi hanno però affollato il monastero di Gračanica per celebrare con il patriarca serbo Porfirio e gli arcivescovi della Chiesa ortodossa il principe martire Lazar e, tra i fedeli, c'era anche il figlio del presidente serbo Vučić, che indossava una maglietta con sopra scritto «La resa non è un’opzione», un chiaro riferimento alle rivendicazioni serbe su quello che considerano un simbolo della loro indipendenza. Non bastasse, alla celebrazione di Vidovdan del suo partito nell'hotel Yugoslavia di Belgrado, Vučić ha detto che quanto scritto sulla maglietta di suo figlio, ovviamente rilanciato dai media di Pristina, «è ciò che ognuno di noi Vučić pensa anche in Serbia».

Dal canto suo, la ministro degli Esteri kosovara Donika Gërvalla-Schwarz, intervistata oggi da Lidové noviny, il più antico giornale della Repubblica ceca, ha dichiarato che «la guerra nei Balcani non può essere esclusa», accusando che «le tensioni in Kosovo sono controllate dalla Serbia e sono responsabilità del presidente Vučić». Mentre la ministra dell'Economia kosovara, Artane Rizvanolli, ha denunciato a Ginevra in occasione del Congresso Mondiale delle Camere di Commercio che Pristina «sta pagando l'appeasement verso la Serbia», ricordando che il 10% della popolazione kosovara risiede in Svizzera.

Insomma, mala tempora currunt non solo in Ucraina ma anche in Kosovo, dove la maggior parte della popolazione del Kosovo di 1,8 milioni. sono di etnia albanese e il 5 per cento sono serbi. Lo dimostra anche il fatto che ieri il parlamento della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina ha sospeso la partecipazione di Sarajevo al processo di Berlino, che mira a collegare i paesi dei Balcani occidentali e la loro più rapida integrazione nell'Unione europea. E mentre bloccano l'attuazione degli impegni assunti nell'ambito del processo di Berlino lo scorso novembre, i serbi di Bosnia insistono al tempo stesso sul fatto che Sarajevo aderisca al progetto Open Balkans, lanciato da Belgrado e a cui finora hanno aderito solo Albania e Macedonia del Nord.


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