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Ucraina

A Kyiv con il Mean. Appunti di viaggio

Ho conosciuto gli attivisti del Mean. Un manipolo di donne e uomini di ogni età convinti che il mondo si può cambiare, non importa da quanto in basso parti, di quante risorse disponi, e nemmeno in quanti si è; dieci o un milione va bene lo stesso, quel che conta è adoperarsi per progetti concreti di pace

di Doriano Zurlo

Doriano Zurlo con il figlio Paolo

«Siate affamati, siate folli» diceva Steve Jobs in conclusione del suo famoso discorso a Stanford. Una frase che non mi ha mai convinto più di tanto. Siate affamati, siate folli. D’accordo. Ma per chi? Per cosa? Per fare i soldi? Per diventare famosi? No, c’è qualcosa che non funziona.

Ho pensato così fino a quando gli affamati, e i folli, non li ho poi incontrati per davvero. Sono gli attivisti del MEAN, Movimento Europeo di Azione Nonviolenta, con i quali sono andato a manifestare a Kyiv per la pace, il 14 e 15 ottobre scorsi. Un manipolo di donne e uomini di ogni età convinti che il mondo si può cambiare, non importa da quanto in basso parti, di quante risorse disponi, e nemmeno in quanti si è; dieci o un milione va bene lo stesso, quel che conta è adoperarsi per progetti concreti di pace, e pazienza se chi guarda il mondo sopraffatto dal proprio cinismo e dal proprio benessere giudicherà tutto surreale, utopistico, irrealizzabile… ce ne faremo una ragione. Noi si parte, si va. Si va là, nel paese in guerra, a costruire relazioni, a gettare semi, a diffondere la pace come esperienza e non come ideologia. E senza la pretesa di insegnare niente a nessuno. Tantomeno a gente che da più di un anno è sotto le bombe. Siate affamati, siate folli. Oppure accontentatevi dei battibecchi nei talk-show, emozionatevi per interposta persona, rinunciate a mischiarvi con il fango, e quindi anche con la luce, di questo mondo.

Scalo a Cracovia

Mi ha convinto mio figlio Paolo, studente al secondo anno di Relazioni Internazionali. È da quando i russi sono entrati in Ucraina che vorrebbe andare là a vedere che succede. Così, quando il direttore di Vita, Stefano Arduini, mi gira la proposta di viaggio del Mean, io la giro a lui. E lui: vado, mi pago il viaggio io, sono maggiorenne, non puoi dirmi di no. Ok, aspetta un momento. Magari vengo anch’io. Che spedirti in Ucraina non mi sembra proprio uguale a mandarti in gita, chessò, ad Ascoli Piceno!

E così nella tarda mattinata di venerdì 13 ottobre atterriamo a Cracovia, da dove viaggeremo in pullman per 874 chilometri, perché naturalmente sull’Ucraina non si può volare. Là, a Cracovia, iniziamo a conoscere questa banda di folli. Il primo è Riccardo Bonacina, giornalista, fondatore di Vita e cofondatore del MEAN, da trent’anni ubiquo e instancabile promotore di iniziative per la crescita del terzo settore, dell’attivismo civico, del volontariato. Dove c’è qualcosa che ha a che fare con il bene, lui c’è. Ha scritto un toccante resoconto di questa missione; per chi vuole leggerlo, è qui.

Poi familiarizziamo con gli altri. C’è di tutto. Esponenti dell’Azione Cattolica, di CL, quattro frati minori francescani, uno psichiatra agnostico, il parlamentare del PD Giuseppe Provenzano, la parlamentare 5 Stelle Federica Onori, studenti universitari, un fotografo, un copywriter (io), una studiosa di ebraismo, un operaio, un videomaker, una professoressa di lettere in pensione, il segretario internazionale del MASCI, un delegato del MoVI, un giornalisti di Avvenire, l’Eco di Bergamo, Linkiesta, una vegetariana convinta che l’esperanto sarebbe il miglior antidoto all’incomprensione tra i popoli, il sindaco di Fermo e presidente ANCI Paolo Calcinaro, il sindaco di Fano Massimo Seri, la vicesindaca di Milano Anna Scavuzzo, l’Europarlamentare 5 Stelle Fabio Massimo Castaldo che per simpatia, cultura, capacità di visione e passione politica fa vacillare i tanti pregiudizi che ho sempre avuto su quel partito…

Se ho dimenticato qualcuno, chiedo clemenza. Più che stilare l’elenco completo, mi interessava mostrare l’eterogeneità del gruppo, e credo di esserci riuscito. L’età va da 20 a 82 anni. Non si può che rimanere stupiti davanti a una proposta capace di intercettare il desiderio profondo di persone così tanto diverse tra loro. Come se avessimo tutti nel cuore la stessa cosa. Be’, non è così, alla fine?

Notte in pullman

Non vado d’accordo con quel pacifismo sempre pronto a sottolineare gli errori dell’Occidente e mai altrettanto pronto a condannare la politica di Putin. Questo, all’inizio del viaggio, mi preoccupa un po’. Ma quando sul pullman prende la parola Angelo Moretti, presidente del consorzio “Sale della terra”, cofondatore e portavoce ufficiale del MEAN, ogni dubbio viene diradato. «Non stiamo andando a Kyiv – dice – con la pretesa di risolvere le cose e tantomeno con quella di dire agli ucraini come, quanto e se devono difendersi. Ci andiamo perché pensiamo che la parola pace vada detta là, insieme a loro, e non astrattamente da uno studio televisivo, da un social o dalle colonne di un giornale». E poi la cosa che mi ha colpito di più: «Se l’aggredito viene lasciato solo, poi diventa come l’aggressore».

Ma ora dobbiamo fermarci. Attraversiamo il confine tra Polonia e Ucraina a piedi, passando per il controllo passaporti in una zona di campagna piuttosto lugubre, circondata da edifici bassi e alte recinzioni sulla cui sommità è arrotolato il filo spinato. Di là, in Ucraina, ci aspetta un altro pullman, che ci porterà a Kyiv viaggiando tutta la notte. La trafila non è nemmeno troppo lunga. Ovviamente, le code sono sul lato opposto, in uscita dal paese in guerra.

Passati i controlli e sistemati sul nuovo pullman, ci inoltriamo per strade incredibilmente buie. Non una luce per chilometri. Finalmente arriviamo in un autogrill per fare cena. Lo prendiamo d’assalto. Chi vuole può ordinare qualche piatto pronto al banco. Ben presto si forma una lunga coda. Io e Paolo preferiamo scegliere qualcosa di confezionato nel minimarket. È più veloce. Trovo dei grissini torinesi. Boja faûs! E poi vaschette di salumi e formaggi dall’aspetto poco rassicurante. Prendo anche dei würstel, cioè la cosa che, secondo il parere del colesterologo, meno dovrei mangiare in assoluto. Ma sono in Ucraina, chi mi vede?

Si siede al nostro tavolo una bella signora. Viaggia con noi e non le daresti più di 65/70 anni. La guardo con un po’ di sospetto. Non vorrà mica rubarmi le fette di salame? Mio figlio Paolo, più socievole di natura, subito si presenta e le dà la mano. Cofondatrice del MEAN anche lei, scopro che Marianella Sclavi è un gran personaggio. Già docente di etnografia urbana e gestione creativa dei conflitti al Politecnico di Milano, con una lunga parentesi newyorkese per collaborare con MIT e Harvard, tanto per dirne un paio, ha studiato sociologia a Trento. Sociologia a Trento… Faccio la battuta? La faccio e, con un sorrisino ebete, sparo lì: «Magari ha pure conosciuto Renato Curcio». «Sì certo – risponde lei – con Renato, quando era detenuto, ho anche scritto un libro intitolato Ridere dentro: un seminario sull’umorismo in carcere». Mi casca la mascella. Durante la notte andrò a dare un’occhiata su Google e scoprirò che di libri, Marianella Sclavi, ne ha scritti parecchi. Scoprirò anche che è del ’43, che di anni ne ha 80, e che sta facendo questo viaggio terribilmente scomodo per la nona volta, perché ha partecipato a tutte le missioni del MEAN.

La preghiera interreligiosa

Mattina a Bucha

Quando arriviamo in piazza Maidan, a Kyiv, manca poco all’alba. La città dorme. Ci dicono di scaricare una app che avverte di eventuali bombardamenti. Se suona, devi correre a ripararti in qualche rifugio sotterraneo. Ci dicono anche di stare tranquilli, gli sforzi bellici ormai sono concentrati altrove.

L’emozione è forte. Lungo il muretto di contenimento che delimita un lato della piazza sono collocate, in memoria, le foto delle 100 e oltre vittime della repressione perpetrata dal governo di Janukovyč durante le proteste del 2013/14, passate poi alla storia con il nome di Euromajdan. Paolo Bergamaschi, già political advisor del Parlamento Europeo, dove fu chiamato dal fondatore dei Verdi italiani Alex Langer, ci racconta che era lì in quei giorni, e che in piazza c’era tutta la società civile, anche quella russofona, tutti insieme a gridare Eu-ro-pa! Eu-ro-pa!

Ad accoglierci all’albergo Ucraina, dove dormiremo una notte, c’è Tetyana Shyshnyak, ucraina russofona di Donetsk, che insieme a Tina Di Rubbo si occupa mirabilmente sia dei contenuti sia di tutta la parte organizzativa. Tetyana e Tina sono altre due anime affamate e folli. Sempre pronte a spendersi per la buona riuscita dell’evento.

Dopo la notte in pullman, abbiamo giusto un paio d’ore per riposarci e fare colazione. Poi si va a Bucha (Buča), una cittadina a nordovest di Kyiv dove le forze terrestri russe, nel marzo del 2022, quindi poco dopo l’inizio della guerra, lasciarono morte, per le strade o gettate in fosse comuni, più di 500 persone, molte delle quali torturate prima di essere uccise. Erano tutti civili. Un massacro.

Al memoriale ci accoglie il parroco della chiesa ortodossa ucraina, Andriy Galavin, che ci racconta l’orrore di quei giorni. Camminiamo su assi di legno, fuori dalla chiesa. Sotto i nostri piedi, nel terreno che circonda la parrocchia, sono stati sepolti diversi cadaveri. Il loro nome è inciso su un lungo muro composto da tante tessere di metallo. Uomini, donne, bambini. Il parroco tira fuori il telefonino e ci fa vedere i video e le foto fatte di suo pugno, un anno e mezzo fa, all’epoca degli eventi. Cadaveri di persone torturate e uccise con i polsi legati da fascette di plastica, e altre cose raccapriccianti. Dentro la parrocchia è stata allestita una mostra. Ci sono molte foto. In una di esse c’è anche Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea. Affiancata dallo stesso parroco che ci sta parlando ora, assiste esterrefatta alla sepoltura dei corpi che oggi sono sotto i nostri piedi.

«La vedete quella casetta rossa?» – dice il prete ortodosso a un certo punto. Appena fuori dal campo che circonda la parrocchia, in effetti, c’è una casetta rossa. «Lì ci abitava una famiglia arrivata nel 2014 dal Donbass. Si erano trasferiti qui per sfuggire alla guerriglia che si era scatenata nella loro regione. Non è bastato. Sono stati uccisi dall’esercito russo in ritirata, mentre cercavano di scappare in auto. Padre, madre e due bambini». Questa storia ci lascia senza parole. Galavin dice che non riesce a capire come sia possibile che qualcuno, in Occidente, metta in dubbio i fatti avvenuti. Che ci sia ancora qualcuno che parla di montatura televisiva, di comparse o, alla meno peggio, di fatti ingigantiti. Mi viene in mente il volto algido e impenetrabile della filosofa Donatella Di Cesare, che dagli scranni di vari studi televisivi metteva in dubbio l’atrocità perpetrata. Chissà se ha cambiato idea.

I carri armati sovietici trofeo di guerra in piazza Santa Sophia

Carrarmati bruciati a Kyiv

Dopo il pranzo in albergo si va in piazza Santa Sofia, per il momento di preghiera interreligiosa. Ci sono tante personalità. C’è, in presenza, il rappresentante della Santa Sede a Kyiv, il nunzio apostolico monsignor Visvaldas Kulbokas. In collegamento via zoom, su un grande schermo, ci sono una quindicina di gruppi di preghiera sparsi in tutta Italia. C’è anche il vicepresidente della CEI Francesco Savino. E c’è addirittura un collegamento da Israele: dal confine con il Libano, interviene Angelica Edna Calo Livne della fondazione Beresheet LaShalom. Siamo nei giorni che seguono l’orribile attacco di Hamas alla popolazione civile israeliana. In piazza, rappresentanti di tante confessioni: cattolici di rito romano, cattolici di rito orientale, ortodossi della chiesa ucraina, protestanti, musulmani. Di questo momento così prezioso e intenso, ha raccontato molto bene il portavoce del MEAN, Angelo Moretti. Chi vuole approfondire può trovare le sue parole qui.

Io mi limito a qualche nota di colore, se così si può dire. C’è la magnifica cattedrale di Santa Sofia, alle nostre spalle. Di fianco, su un palazzo, un manifesto pubblicitario gigantesco, simile a quelli che si vedono a Milano in piazza Duomo. È solo un manifesto di moda. Una modella, un marchio, nient’altro. Più in giù, bisogna camminare due o trecento metri per vederli, sono esposti al pubblico ludibrio alcuni mezzi militari russi, completamente bruciati. Carrarmati, camionette, robe così. Fanno parte della colonna che, all’inizio della guerra, aveva tentato di prendere Kyiv. Quella stessa colonna che, ritirandosi, ha lasciato macerie e in qualche caso, come a Bucha, un massacro di civili insensato. Vedo una ragazza in posa. Zatteroni ai piedi, ombelico scoperto, labbroni da botox, coda di cavallo tentacolare e reggiseno antigravitazionale. È in posa davanti a un carrarmato per farsi fare una foto da un’amica. Fa la boccuccia a cuore. Intorno, è tutto un via vai di giovani e meno giovani che si fanno selfie. Dentro quei mezzi, penso, sono bruciate vive delle persone. Giovani ragazzi russi, la maggior parte dei quali nemmeno sapevano cosa ci venivano a fare in Ucraina.

La preghiera interreligiosa è dunque incorniciata all’interno di elementi molto in contrasto tra loro: una cattedrale ricca di magnifici mosaici, una pubblicità patinata, il narcisismo dei selfie. Mi rendo conto di quanto sia importante, anche per chi non crede, che in piazza ci sia qualcosa che vada in senso contrario, che cioè si opponga – con le sue domande rivolte al trascendente – non solo al despota russo, all’invasore deplorevole, al nemico dell’Occidente; ma anche a uno stile di vita, il nostro, che sembra aver dimenticato qualsiasi valore.

Finito il momento di preghiera interreligiosa, a cui hanno partecipato anche non credenti, sono distrutto dalla stanchezza. Un tramonto di ineguagliabile bellezza ha trafitto il mare di nuvole sottile che, come un mantello, sovrastava la piazza. Ora è buio. Non vedo l’ora di tornare in albergo e di poter finalmente dormire in un letto, la notte passata in pullman si fa sentire. Ma arriva Marianella, ottant’anni, e dice, a me e a mio figlio: «Andiamo a farci una birra!». E chi può dirle di no…

Ritorno

Di quello che succede la mattina dopo, ovvero della conferenza intitolata “Il futuro dell’Europa passa per Kiev”, ricordo solo una cosa che mi ha molto colpito, anche perché pronunciata dal nunzio apostolico: «Se siamo arrivati fin qui, in questa situazione, è perché ha fallito la politica. E anche le religioni».

Per tutto il resto – ho più che finito lo spazio a disposizione – e per la interessantissima proposta di costituzione dei corpi civili di pace (un’idea del 1995, di Alex Langer), nonché per i contenuti preziosi degli interventi delle grandi personalità intervenute, rimando al diario del MEAN (qui), e agli ottimi articoli di Daniele Biella (qui e qui) e di Lidia Baratta (qui).

Dopo il pranzo in albergo, si riparte per Cracovia. Chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui avrà trovato, in questo racconto, qualcosa che intercetta il suo desiderio di un mondo più giusto e pacificato. Il minimo che può fare, allora, è seguire il MEAN su Instagram, per tenersi al corrente delle prossime iniziative.

Rientro a Milano lunedì notte, con la febbre. Non ho mica il fisico di Marianella Sclavi…

Martedì mattina il telefonino si mette a suonare. È la app di Kyiv che lancia l’allarme: tutti al riparo! Mi viene un groppo in gola.


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