Scuola
Alunni stranieri: quanto ci costa non fare la riforma della cittadinanza
Il riconoscimento della cittadinanza per le seconde generazioni può generare nell’arco di un decennio benefici economici per il bilancio dello Stato tra gli 800mila e i 3,4 milioni di euro ogni 100 nuovi cittadini. È la stima di "Chiamami col mio nome", un’indagine sugli studenti con background migratorio nelle scuole italiane presentata da Save the Children
di Redazione

Avere o non avere la cittadinanza italiana influisce anche sulle scelte dei ragazzi e delle ragazze, rispetto alla scuola superiore da frequentare. Oggi infatti, per un meccanismo di “autoselezione” molti studenti con background migratorio privilegiano percorsi formativi che garantiscono un accesso più rapido al mercato del lavoro, come gli istituti professionali o tecnici. Se il 53,7% degli italiani sceglie un liceo (a prescindere dal rendimento scolastico e dalla condizione socioeconomica), ecco che gli alunni con background migratorio mostrano un distacco di venti punti percentuali: scelgono un liceo il 35% di quelli di prima generazione e il 42,9% di quelli di seconda. Anche quando il consiglio orientativo dei docenti è quello di iscriversi ad un liceo, questi studenti si mostrano meno propensi a seguirlo: lo fa il 73% rispetto all’89% degli studenti di origini italiane), pure fra chi vive in una famiglia con condizioni socioeconomiche molto buone. La causa? I possibili pregiudizi negativi, che portano a orientare gli studenti con background migratorio più frequentemente dei loro coetanei verso istituti tecnici o professionali piuttosto che al liceo, anche a parità di competenze e condizione socioeconomica.
È solo un esempio delle disparità che ancora esistono nella scuola italiana fra gli alunni che hanno la cittadinanza italiana e quelli che non ce l’hanno: circa 865mila, pari al 12,2%, circa 1 su 8. Il loro numero è quadruplicato negli ultimi vent’anni, ma ricordiamo sempre che secondo gli ultimi dati disponibili, più di 3 su 5 di loro (il 65,4%) sono nati nel nostro Paese.
Sebbene la cittadinanza non sia sufficiente a colmare del tutto il divario con i nativi (per esempio tra gli studenti con background migratorio di prima generazione la dispersione implicita raggiunge il 22,5%, molto distante rispetto all’11,6% dei coetanei di origine italiana, anche se il dato migliora notevolmente tra gli studenti di seconda generazione, attestandosi al 10,4%), contribuisce a ridurlo in modo significativo — quasi dimezzandolo — in una fase cruciale per la futura carriera lavorativa.
È quanto si legge nel rapporto Chiamami col mio nome. Un’indagine sugli studenti con background migratorio nelle scuole italiane, diffuso da Save the Children in vista della riapertura delle scuole. L’analisi contiene anche una stima sulle probabilità di frequentare l’università per gli studenti di seconda generazione, con e senza cittadinanza, e degli esiti di lungo periodo riguardo a salari e disoccupazione: secondo le stime, il riconoscimento della cittadinanza per le seconde generazioni può generare nell’arco di un decennio benefici economici per il bilancio dello Stato, e quindi per l’intera comunità nazionale, tra gli 800mila e i 3,4 milioni di euro ogni 100 nuovi cittadini.
Ad oggi infatti l’Italia è tra i Paesi Ocse in cui gli studenti con background migratorio mostrano aspettative significativamente più basse (-12 punti percentuali) rispetto ai coetanei autoctoni riguardo all’iscrizione all’università e al completamento degli studi, tanto che soltanto il 3,9% degli studenti iscritti all’università è di origine straniera, con Lombardia, Lazio e Piemonte dove si concentra quasi la metà degli iscritti (poco più di 35 mila). Anche in questo caso, come per la scelta della scuola superiore, incidono negativamente la condizione economica e l’orientamento. Gli studenti che si definiscono “molto bravi” a scuola che intendono iscriversi all’università sono il 61,1% tra quelli di prima generazione, il 64,4% tra quelli di seconda e il 74,7% tra coloro che hanno origini italiane. La minore frequenza all’università tende a escludere i giovani di origine straniera da lavori più qualificati, tanto che oggi in Italia solo il 17,5% dei lavoratori di origine straniera si colloca nelle tre categorie professionali più alte (dirigenti, professioni intellettuali, tecniche e scientifiche), contro oltre il 40% degli italiani.
«Per rispondere alla domanda di appartenenza dei giovani con background migratorio è importante che il Parlamento riapra la discussione sul tema, per arrivare a un nuovo quadro legislativo che, sulla base dello ius soli temperato, riconosca la cittadinanza a chi nasce in Italia da genitori regolarmente residenti e preveda percorsi semplificati per chi in Italia è cresciuto», afferma Giorgia D’Errico, direttrice delle Relazioni Istituzionali di Save the Children. «Va inoltre rafforzato il supporto alle scuole, soprattutto nei territori più fragili, formando il personale scolastico sulle competenze metodologico-didattiche inclusive e la prevenzione dei pregiudizi nell’orientamento, garantendo la presenza di mediatori interculturali a supporto delle famiglie. È fondamentale che il ministero dell’Istruzione e del Merito definisca un Piano che, anche mettendo a sistema strumenti e interventi già avviati, promuova un’educazione inclusiva e interculturale. Riconosciamo lo sforzo iniziale di inserire nuovi docenti per il potenziamento dell’insegnamento della lingua italiana agli studenti e alle studentesse con background migratorio, ma occorre consolidare questo impegno e proseguire in questa direzione per assicurare un’adeguata presenza sul territorio e una distribuzione coerente di docenti di italiano L2 con i bisogni effettivi delle scuole».
In appoggio al dossier Chiamami con il mio nome, realizzato in collaborazione con Fondazione Bruno Kessler-Centro per le Scienze Religiose e il movimento Italiani Senza Cittadinanza, Save the Children ha effettuato uno studio qualitativo, volto a indagare le prospettive, le esperienze, le aspirazioni e le difficoltà di ragazze e ragazzi con background migratorio riferite ai loro percorsi sociali e scolastici. I ragazzi vivono nel Nord Italia (a Brescia, Modena e Trento) e frequentano il primo e il quinto anno di alcune scuole secondarie di secondo.
Per quanto riguarda l’orientamento, alcuni ragazze e ragazzi con un buon rendimento scolastico intervistati raccontano di essere stati sconsigliati rispetto alla scelta del liceo. Leila frequenta il primo anno di un liceo delle scienze umane, ricorda però che i suoi professori delle medie le dissero che il liceo non sarebbe “riuscita a farlo”, racconta. La maggior parte delle studentesse e degli studenti intervistati ha affrontato difficoltà nello studio, che ora ritengono però superate o superabili. Molti hanno frequentato corsi di recupero o sono stati affiancati da tutor, quasi mai però a scuola, ma tramite associazioni o insegnanti privati pagati dalle famiglie. Il supporto allo studio viene descritto come discontinuo – soprattutto alle scuole secondarie di secondo grado – e poco fruibile. Ad esempio, per alcuni studenti, gli orari dei corsi pomeridiani sono “insostenibili” per via del tempo necessario a raggiungere casa con i mezzi pubblici, in genere in zone periferiche.

Nel delineare il proprio futuro molti giovani con background migratorio ritengono che il riconoscimento della cittadinanza sia una condizione necessaria per poter immaginare il domani con fiducia, sentirsi legittimati nelle proprie aspirazioni e accedere a opportunità, come viaggiare, lavorare, iscriversi all’università, partecipare a scambi culturali in altri Paesi o allo sport agonistico, accedere a concorsi pubblici e altro. Per alcuni, la sua mancanza può generare un senso di esclusione o di sospensione identitaria, come racconta Daniel: «Quel pezzo di carta ti aiuta a sentirti più legato all’Italia… perché se glielo dici tu magari qualcuno non ci crede [che sei italiano]».
Foto di Lorenzo Pallini per Save the Children
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