Educazione
Bravi ragazzi o mostri? Sei riflessioni per genitori che si interrogano
Stiamo davvero educando dei mostri? L'uccisione di Giulia Cecchettin interpella tutti e chiama tutti alle proprie responsabilità nei confronti dei più giovani: in una parola, alla responsabilità educativa, che non è solo della scuola o solo della famiglia. Sei esperti e sei parole da cui ripartire
“I figli diventano ciò che vedono”. “È stato il vostro bravo ragazzo”. “Siamo gli unici a non avere un’educazione sessuale a scuola”. “Basta con la retorica dell’educazione sentimentale che risolverebbe tutto, i nostri figli sono immersi tutto il giorno e tutta la notte dentro un plancton di violenza, che diventa gioco fiction onore prestigio passaporto per essere accettati nel gruppo”. “Ma anche questo scaricare le colpe di un crimine sui genitori, mica mi convince”. Elodie che fa il minuto di silenzio e poi in radio ci martella con Sfera Ebbasta “sei soltanto mia/mai più di nessuno/ odio chi altro ti ha avuta o fatta sentire al sicuro”. “In tv hanno appena detto che i colpevoli di femminicidio hanno sempre modelli materni diseducativi, donne che le picchiavano e non si ribellavano. Quindi il modello diseducativo era la madre che subiva, non il padre che le picchiava”. “Bisogna dare spazio a chi sa raccontare a ragazzi e ragazze che esistono anche relazioni felici o che possono esistere e che di certo esisteranno, perché bisogna essere capaci anche – pur in ore tenebrose – di dare speranza nel futuro e non disperazione”.
È un piccolo collage di frasi lette sui social in queste ore, di personaggi famosi e non. Che portano tutta la contraddizione dei pensieri di questi giorni. La famiglia è sotto accusa ed è chiamata a fare uno scatto nell’educazione. La scuola parimenti è sotto accusa, chiamata a rispondere con l’ennesima “educazione”. L’educazione è tutto, l’educazione però la consideriamo meno di nulla. Soprattutto, educare è difficilissimo. Abbiamo chiesto consiglio a sei esperti.
«Più che parlare di cultura del patriarcato o maschilista, io vedo il problema dell’interpretare la funzione educativa nel nome del controllo, come forma di potere. Dobbiamo uscire da una cultura che attribuisce al controllo una funzione educativa, come se l’educazione si esprimesse nel registro del controllo e non della libertà.
I genitori vanno sostenuti ad esercitare in modo corretto ed equilibrato il concetto di controllo, perché oggi nelle famiglie – non dico le famiglie fragili, parlo in generale – c’è una cultura del controllo, dell’attesa e dell’aspettativa verso i figli di cui i figli diventano troppo spesso prigionieri. Occorre invece far sperimentare ai figli la possibilità di correre dei rischi, di avere dei limiti, di essere fragili: oggi questi sono temi che spaventano, avere un figlio fragile, che presenta dei limiti fa paura, è qualcosa che si tende a non voler vedere. C’è la cultura del “bravo ragazzo”, si costruisce un’immagine idealizzata del figlio, una gabbia di aspettative e iper controllo, in cui i ragazzi fanno fatica a stare: tutti invece facciamo i conti con i limiti, ma oggi questo tema è escluso dalla cultura educativa, sia in famiglia che fuori. I genitori vanno supportati a tenere dentro anche la parte di fragilità del figlio: non si possono tenere i figli sempre al riparo, lontano dai rischio e dall’incontro con la frustrazione, perché quando si trovano di fronte al dato di realtà, all’alterità, i ragazzi rischiano di non reggere. La vita è fatta di rifiuti, di legami che si rompono, di fallimenti… ma tutto questo non lo si mette mai a tema. I ragazzi non sono attrezzati rispetto al fallimento e al limite, ma questo rende fragili e quando sei fragile ogni rifiuto appare totalizzante.
Dobbiamo uscire da una cultura che attribuisce al controllo una funzione educativa, come se l’educazione si esprimesse nel registro del controllo e non della libertà
Monica Amadini
Dobbiamo tornare a dirci che essere genitori è accompagnare i figli alla vita, mentre invece nella narrazione di oggi il bravo genitore oggi è colui che tiene i figli lontani dai pericoli, per questo dicevo che l’atto educativo viene gestito prevalentemente con il filtro del controllo… No, il bravo genitore è colui che ti attrezza alla vita e dobbiamo dircelo che si è bravi genitori anche esponendo il figlio a dei rischi.
L’altro, l’incontro con la diversità ti scuote, ti fa fare i conti con ciò che sei, anche con le parti più nascoste di te che nemmeno tu vuoi vedere: è una sfida al narcisismo. L’altro mette in moto un meccanismo di fuoriuscita da sé: questo è un meccanismo da cui stiamo sfuggendo. C’è troppo egoismo, non inteso in senso morale ma psichico, di centratura su sé, che porta ad interpretare la realtà unicamente secondo il proprio punto di vista: in questo modo anche nella relazione con l’altro si cerca solo la perpetuazione del sé e l’altro diventa solo il prolungamento di sé.
L’altro mette in moto un meccanismo di fuoriuscita da sé: questo è un meccanismo da cui stiamo sfuggendo. C’è troppo egoismo, non inteso in senso morale ma psichico, di centratura su sé
Monica Amadini
Occorre rimettere al centro il concetto di responsabilità educativa, con una centratura non esclusiva sulla famiglia e sui singoli soggetti chiamati ad educare, ma di comunità. L’educare ha certamente dei luoghi primari, quali la famiglia e la scuola, ma tutti ne siamo responsabili: l’opera educativa è collettiva. Non sottovaluto quanto incide la cultura educativa familiare, ma i ragazzi respirano modelli culturali in casa e fuori casa. Gli eventi di questi giorni devono essere trasformati in un appello alla responsabilità di tutti a costruire una cultura del rispetto là dove siamo, fatta di parole di rispetto, gesti di rispetto, pensieri che sappiano rispettare la libertà della donna, ma in generale della persona. Tutti siamo chiamati a fare uno sforzo aggiuntivo di testimonianza».
«Non è colpa dei genitori, questo dobbiamo pur dirlo: dobbiamo cambiare la narrazione sulla famiglia. Come dobbiamo evitare un dibattito che accusa e polarizza, perché l’educazione va fatta insieme, uomini e donne. Viviamo in una società che non sa più cosa è il dialogo, la comprensione, la collaborazione, incapace di esprimere le emozioni in maniera corretta, basata sul bisogno di possesso. Da più di un secolo, la narrazione dominante vede l’amore come bisogno estremo, come possesso, come unico modo per avere una vita sensata, come “senza te non posso vivere”: i libri, le canzoni, il film passano questo messaggio che ovviamente ha parole diverse oggi rispetto a un secolo fa, ma il messaggio è lo stesso. Vale per le donne e per gli uomini, anche se poi si esplicita in maniere opposti e complementari: la donna con l’ipersessualizzazione e con il legare il senso della propria esistenza allo stare con un uomo, – a me colpisce sempre molto il vedere come ancora oggi tantissime ragazze pensino che la loro vita non possa stare in piedi senza avere un compagno – mentre gli uomini pensano “io son qui per proteggerti”, ma in realtà questo diventa un “ti proteggo finché sei mia”, dopodiché non solo non ti proteggo più, ma ti faccio del male. Non è un problema dei genitori, è un problema della società. È troppo lineare e semplicistico dire “ è colpa della famiglia”.
Escludo che i corsi di educazione sentimentale a scuola siano una soluzione, perché le relazioni non si imparano dai corsi ma dal vivere
Laura Formenti
Detto ciò, cosa può fare la famiglia? Molto. È vero che i nostri modelli sono ancora quelli patriarcali e che questo passa da una generazione all’altra, trasversalmente. Ma dall’altra parte esiste la equifinalità, per cui ci sono famiglie bellissime, con rapporti di genere equilibrati, aperte al dialogo e in cui paradossalmente si verificano situazioni mostruose e viceversa. Quello che escludo è che i corsi di educazione sentimentale a scuola siano una soluzione, perché le relazioni non si imparano dai corsi ma dal vivere. Spazi di ascolto sì, spazi nelle scuole sì, testimonianze di chi ha vissuto questa realtà sì. Ma un’ora di scuola, magari con qualcuno non preparato a gestire le emozioni… la eviterei. Qui in Bicocca abbiamo da tempo un corso sulla violenza contro donne e minori, ideato dalla professoressa Calloni, ormai ci sono centinaia di persone che hanno una formazione specifica su questo: sono queste persone che andrebbero coinvolte, perché sanno come parlare di questi temi e come parlarne in modo diverso per le diverse fasce d’età».
«Sento dire “è colpa della famiglia”, “anzi no è colpa della scuola che non fa educazione alle emozioni”. Il problema è che ragioniamo in termini binari, mentre non c’è una causa che porta a commettere un reato così grave: sono situazioni multifattoriali e noi dobbiamo agire in termini di prevenzione. Il problema è la scuola ed è la famiglia ed è la relazione tra scuola e famiglie, dal nido in poi. Famiglie e scuola però educano anche sulla base del discorso sociale e collettivo che si costruisce sull’educazione: noi in Italia abbiamo dimenticato un discorso collettivo sull’educazione. In altri paesi si fanno campagne sull’educazione, da noi invece si moltiplicano le “educazioni” e le ore ad esse dedicate, ma poi il discorso resta confinato lì. Va benissimo fare l’ora di educazione civica e quella di educazione alle relazioni, ma la verità è che l’educazione si fa in tutte le cose quotidiane: a scuola devo fare educazione affettiva facendo letteratura; a casa l’educazione affettiva si fa a tavola, stando con i bambini, dandosi tempi di relazioni gratuita con loro, dove io non mi preoccupo di sapere se hanno fatto i compiti, cosa hanno fatto, che voto hanno preso ma di capire come si sono sentiti.
Faccio un esempio: con l’Università di Padova, in occasione di Science for All, noi del gruppo PIPPI (il programma nazionale di sostegno alle famiglie e di prevenzione dell’istituzionalizzazione, ndr) abbiamo fatto un’attività semplicissima con i bambini delle terze primaria, per aiutarli a riconoscere i loro bisogni e a parlare con i genitori, affinché i genitori se ne accorgano. Le maestre ci hanno detto che non conoscevano quelle cose dei loro bambini: io mi chiedo come sia possibile stare otto ore al giorno con dei bambini, da educatore, e non sapere come stanno? Il problema non è l’ora di educazione affettiva, ma la concezione di educazione che abbiamo.
Noi in Italia abbiamo dimenticato un discorso collettivo sull’educazione. Si moltiplicano le educazioni a scuola ma poi il discorso resta confinato lì. La verità è che l’educazione si fa in tutte le cose quotidiane
Paola Milani
Cosa suggerire allora ai genitori? Ricordare che i bambini hanno bisogno di attenzione e cura, non solo dei loro bisogni fisici e materiali: il dato uscito di recente su quante madri allattano guardando il cellulare è emblematico di questo approccio, che dà risposte ai bisogni materiali dei bambini ma non al loro bisogno di relazione. Educare è entrare nel mondo dei bambini, è stare con i bambini, avere tempi di relazioni gratuita con loro. Bruner diceva che la sera quando la famiglia si ritrova a tavola e condividere le esperienze fatte durante la giornata, in quel momento costruisce senso, costruisce valore. Quando entro in una relazione di ascolto, sto dicendo “io sono qua, tu sei importante per me” e tutti abbiamo bisogno di essere importanti per qualcuno. Questo è uno dei fondamentali da recuperare».
«Un figlio che non litigava con nessuno: questa frase nella vicenda di Giulia mi ha colpito tantissimo, perché è esattamente quello che sostengo da quindici anni, dal primo progetto fatto a Rovereto con gli uomini sex offender. Il fatto che una persona non litighi mai con nessuno non è segno di normalità: al contrario è segno di un disturbo. Non saper litigare è il problema. Gli ultimi autori di femminicidio sono in questa zona grigia, di pseudonormalità, di una persona tranquilla che nella sua tranquillità si rivela pericolosa…
Il fatto che una persona non litighi mai con nessuno non è segno di normalità: al contrario è segno di un disturbo. Non saper litigare è il problema
Daniele Novara
Le persone violente – non parlo solo dei femminicidi – sono carenti conflittuali, individui che non hanno mai imparato a gestire le contrarietà nelle relazioni, i conflitti. Quando si trovano in una relazione di intimità con una donna che non li asseconda – o dal punto di vista sessuale o delle scelte fatte – possono (ovviamente la cosa non è meccanica) diventare violenti, fare del male. È tipico del carente conflittuale pensare che le contrarietà si eliminano eliminando chi le porta.
Quello che dice il papà di Filippo, lo pensa la maggioranza della popolazione: in generale tutti pensano che le brave persone non litigano, mentre io da tempo sostengo che le brave persone sanno litigare bene. Il femminicidio è un comportamento che nega l’altra persona, nega il punto di vista altro, il fatto che devi confrontarti con una scelta che non collima con la tua. L’educazione è educare alla buona gestione del conflitto, alla buona gestione delle frustrazioni e degli ostacoli: è lasciare che i bambini litighino, che abbiano un ginocchio sbucciato, che affrontino un rischio… non è continuare a intervenire ossessivamente per proteggere. Anche la scuola ha le sue gravi lacune: nella legge che ha ripristinato l’educazione civica tra i contenuti di questa materia non è prevista la gestione dei conflitti… è una gravissima lacuna perché se tu non gli insegni niente di fatto stai alimentando comportamenti distruttivi.
L’unico antidoto al femminicidio è insegnare ai maschi a rispettare la differenza: quella del patriarcato è una retorica per non affrontare il tema educativo
Daniele Novara
L’unico antidoto al femminicidio è insegnare ai maschi a rispettare la differenza, non è che possiamo prendercela continuamente con un patriarcato che di fatto è scomparso dal punto di vista sociologico, continuando a parlare come se fossimo ancora a una o due generazioni fa: quella del patriarcato è una retorica per non affrontare il tema educativo».
«Un punto di partenza imprescindibile è il vecchio refrain del considerare il privato pubblico. La violenza non è mai privata ma questo vale per la violenza di genere più di tutto. Una violenza agita solo con la motivazione del genere raffigura infatti una endemica, storica, iniqua distribuzione del potere fra donne e uomini, su cui gli uomini riflettono poco o nulla: questa cultura patriarcale in cui siamo immersi fa sì che anche a livello di società si tende a mettere sotto al tappeto alcune cose non perché considerate “normali” ma perché considerate “faccende private”.
Difficile dire “da dove partire” per riorganizzare l’equilibrio del potere tra i generi: si deve partire da tutte le parti. Inclusa una riflessione sulle forme stereotipate o di oggettivazione del corpo delle donne che vediamo a livello mediatico, dalla pubblicità alle canzoni, altrimenti cerchiamo di porre rimedio alla situazione lasciando fuori parti di realtà che – sappiamo tutti – hanno una grossa presa.
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Arrivare a una relazione tra generi realmente paritaria deve essere un percorso che vede alleati, non contrapposti, le donne e gli uomini, ma in cui oggi il grande lavoro lo devono fare gli uomini, riflettendo a livello individuale e di gruppo se il modello dominante di maschio è quello a cui vogliono aderire personalmente: un modello peraltro che è tanto limitante per gli uomini quanto per le donne, perché il maschio che non piange, non esprime l’emozione, che non ha bisogno di nessuno (ma che paradossalmente poi non sa nemmeno farsi il bucato da solo) implica standard prestazionali faticosi. Bisogna sgomberare il campo dal fatto che mettere in discussione questo modello vuol dire avere ragazzini incerti sul proprio orientamento sessuale.
Bisogna educare le persone – soprattutto i maschi – a considerare le relazioni intime non nella logica della proprietà ma nella dimensione del dono. Entrare in relazione è donarsi, non acquisire proprietà su qualcun altro
Luca Milani
Stiamo educando generazioni fragili di fronte ai no e di fronte ai limiti, è vero, ma secondo me il primo punto da tenere in considerazione è che bisogna tornare ad educare le persone – soprattutto i maschi – a considerare le relazioni intime non nella logica della proprietà (così che se la relazione viene meno genera una ferita narcisistica incolmabile), ma allenare alla dimensione del dono. Entrare in relazione è donarsi, non acquisire proprietà su qualcun altro. Ribaltare la prospettiva. Educare alla relazione come dono ma anche educare a riconoscere i segnali di una relazione possessiva: ma qui, lo sappiamo, quanta educazione affettiva si fa? Oggi i ragazzi hanno problemi a riconoscere anche le loro emozioni di base, non sanno distinguere se sono arrabbiati o frustrati, manca una alfabetizzazione emotiva e relazionale, che viene demandata alla famiglia, ma ognuno ha la famiglia che ha».
«L’errore più grande è che i genitori oggi invece che educare si godono la famiglia. Educare significa tenere una differenza, una separazione tra me genitore e il figlio che educo. Oggi questa differenza troppo spesso cade: quando i figli grandi vanno in vacanza con i genitori, quando si confidano con i genitori anziché con gli amici, quando non hanno una vita sociale autonoma che non venga controllata dai genitori, quando accettano che i genitori facciano commenti sui loro amici intimi non per metterli in guardia su possibili rischi ma per gelosia. I punti di cecità sono due: da una parte la famiglia che deve educare e quindi lavorare perché i figli si separino dai genitori, non goderseli… Essere frustrati nel godimento dei propri figli e dare frustrazione ai figli. Dire dei no ed essere anche un po’ odiati ma ricordando che l’educazione è lavorare per la libertà dei figli.
La frustrazione non è la privazione: la privazione è “io ti tolgo qualcosa” mentre la frustrazione è “io ti impedisco di dare uno schiaffo al tuo compagno, di rispondere male”, ha come obiettivo un sì simbolico, il poter vivere insieme all’altro. I nostri figli invece fanno fatica anche a riconoscere che l’altro esiste: allora prima di educare all’empatia bisogna educare a questo, a riconoscere l’esistenza dell’altro e rispettare l’altro.
La frustrazione non è la privazione: la privazione è toglierti qualcosa, la frustrazione ha come obiettivo un sì simbolico, il poter vivere insieme all’altro. I nostri figli invece fanno fatica anche a riconoscere che l’altro esiste
Laura Pigozzi
Un secondo punto di cecità è che non ci rendiamo conto che le persone stanno male e che c’è nella provincia italiana ancora una cultura che non tollera la possibilità di andare dallo psicologo o dallo psichiatra. Manca una cultura della cura. Perché i nostri figli stanno tanto male? Perché il mondo non è come avevano previsto, perché li abbiamo tenuti in casa e li abbiamo portati a pensare che il mondo fosse tutto come casa, fatto tutto di “sì”, mentre non è così. In questo senso Filippo non è un mostro, è un figlio nostro che ammazza un’altra figlia nostra».
Foto di Alessandro Bremec, LaPresse. Il minuto di silenzio e flashmob in onore di Giulia Cecchettin e di tutte le donne vittime di violenza al Liceo Scientifico Vittorini di Milano. Testi raccolti da Sara De Carli, non rivisti dagli autori
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