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Moda & responsabilità di impresa

Care maison, passaporti prego

Concluse le sfilate milanesi, occhi puntati verso le passerelle parigine in corso fino al 5 marzo. Entro l'anno però l'Europa si doterà di uno strumento che garantirà l'eticità della filiera moda: il passaporto digitale, un qr code che racconterà che tipo di produzioni ci sono a monte dei capi griffati. «Verranno a galla le bufale di alcuni marchi», dice Marina Spadafora, docente di Moda etica e fondatrice di Fashion revolution, il movimento nato sull'onda del tragico crollo dei laboratori a Dacca, dove nel 2013 morirono oltre 1.100 persone. Nel nostro Paese però, alcune aziende di abbigliamento e calzature stanno già cominciando a usare l'etichetta trasparente. VITA le ha incontrati

di Isabella Naef

Le sfilate milanesi, con la presentazione delle collezioni donna per la stagione autunno inverno 2024-25, si sono appena concluse e ora tocca a Parigi: fino al 5 marzo la capitale della moda francese vedrà le maison salire in passerella. 

Dalle prossime stagioni, però, le aziende del sistema moda e i consumatori dovranno confrontarsi con una importante novità: il passaporto digitale dei prodotti. Introdotto nel marzo 2022 nel testo della proposta di Regolamento della Commissione Europea sulla progettazione eco-compatibile per prodotti sostenibili (Ecodesign for sustainable products regulation) che andrà ad abrogare l’attuale Direttiva 2009/125/Ce, il digital product passport dovrebbe entrare in vigore a livello europeo entro fine 2024 ed essere recepito dai singoli Stati. La nuova normativa dovrà stabilire anche il termine entro il quale le aziende della moda dovranno obbligatoriamente adottarlo anche se non mancano realtà virtuose che lo hanno già inserito nelle collezioni.

Col Qr Code green e socialwashing al palo

Ma cosa è esattamente questo passaporto digitale? Si tratta di un’etichetta che accompagnerà tutti i capi e che racconterà, attraverso un Qr code da scansionare con il cellulare, quali sono stati i passaggi che hanno portato alla realizzazione del capo, dove sono stati fatti, quali sono i tessuti e i materiali impiegati, quale l’impatto per l’ambiente del prodotto stesso, le informazioni sulla manutenzione e sullo smaltimento. Si tratta di un passaggio epocale che rivoluziona il sistema della moda, cambia l’approccio con i consumatori, informandoli e responsabilizzandoli nell’acquisto e mettendo fine, una volta per tutte, ai cosiddetti greenwashing e socialwashing.

Non sarà più possibile fornire credenziali ambientali non vere, così come dipingere i propri prodotti come sostenibili se effettivamente non lo sono: tutto sarà trasparente, il cliente avrà in mano la storia del capo o dell’accessorio.

Fashion revolution, ancora

«La cosa importante è che il consumatore possa effettuare una scelta consapevole», dice Marina Spadafora, professore di moda etica e coordinatrice nazionale italiana di Fashion Revolution, movimento nato all’indomani della tragedia del Rana Plaza, a Dacca, il 24 aprile del 2013, in cui morirono oltre 1.138 persone.  Il movimento globale, attivo in 92 Paesi, si batte per una moda pulita, sicura, equa, trasparente e responsabile attraverso la ricerca, l’educazione e la difesa. «Il greenwashing sarà punito con l’entrata in vigore della nuova direttiva; è naturale che verranno a galla le bufale raccontate da alcuni marchi», sottolinea Spadafora.

Anche per Giusy Bettoni, fondatrice e ceo di Class, acronimo di Creativity, lifestyle e sustainable synergy, piattaforma che ha la missione di dare ai professionisti del tessile e moda la possibilità di innescare un cambiamento promuovendo una nuova generazione di valori responsabili, «il digital product passport ci dice cosa stiamo acquistando in assoluta trasparenza e documentando la tracciabilità della filiera. Mi piace anche pensare che un domani ciascun consumatore possa inserire i dati sull’utilizzo stesso del prodotto aggiungendo informazioni sull’impatto del capo: quanto e come lo ha lavato, per quanto tempo lo ha indossato».

I jeans della marchigiana Dondup sono già provvisti di passaporto digitale

A proposito di durabilità, infatti, il regolamento comunitario che introduce il passaporto digitale si pone l’obiettivo di invertire la sovrapproduzione e l’iperconsumo di abbigliamento; allontanando, di fatto, il fast fashion dalla moda e incoraggiando i principi della circolarità (raccolta dei capi di seconda mano, servizi di riparazione) e la riduzione del numero delle collezioni all’anno.

Le aziende che hanno già adottato il passaporto digitale dei prodotti

Oggi il passaporto digitale dei capi è già una realtà per diversi brand della moda che non si vogliono far trovare impreparati nel momento in cui il passaporto digitale diventerà obbligatorio e, soprattutto, che hanno deciso di operare instaurando un rapporto di trasparenza con il cliente.

«Lo storytelling in materia di sostenibilità deve essere fatto assieme allo story making e il passaporto digitale va in questa direzione», dice Bettoni.

Tra questi marchi virtuosi figura Dondup, brand marchigiano fondato alla fine degli anni ’90 e conosciuto soprattutto per i suoi jeans. «I capi della collezione primavera estate 2024 che sono in già vendita  nei negozi hanno il passaporto digitale: sia il cartellino del prodotto, sia l’etichetta interna contengono un Qr code che atterra su una piattaforma online in grado di raccontare le certificazioni dei tessuti, i valori dell’azienda,  l’impronta ecologica, ossia quanti litri di acqua sono stati necessari per la produzione, quanti metri di tessuto, qual è l’impatto in termini di Co2», spiega Mattia Orso Mangano, direttore marketing di Dondup, specificando che, dal  2019, la filiera dell’azienda è completamente Made in Italy.

Mattia Orso Mangano,, direttore marketing di Dondup

Mappare la filiera

Per reperire tutte le informazioni necessarie a creare il passaporto digitale le aziende devono mappare la filiera che entra in gioco nella produzione del prodotto e fare in modo che i dati sui singoli stabilimenti e su ciascun passaggio siano codificate e inseriti nel flusso di informazioni.

Il digital product passport descrive il processo di produzione dalla filatura allo smaltimento, evidenziando anche l’impatto che ogni prodotto ha sul pianeta

Alla base del digital product passport, c’è la blockchain: una tecnologia decentralizzata che mira a garantire che i dati siano sicuri e facilmente accessibili all’utente finale.

«In attesa che la normativa chiarisca dettagliatamente le informazioni da riportare sul passaporto digitale, abbiamo realizzato una ricerca chiedendo ai clienti abituali quali fossero i dati sul capo che ritenevano maggiormente importanti» afferma Camilla Carrara, designer e fondatrice del marchio di artigianato made in Italy Zerobarracento.

«Grazie ai passaporti digitali dei prodotti, i nostri clienti hanno ora la storia completa di ogni capo, dalle materie prime al prodotto finale. Abbiamo collaborato con la startup Xylene per mostrare il potenziale dei passaporti digitali dei prodotti e della tracciabilità. Sostenuta dal progetto di partenariato Worth della Commissione europea, questa collaborazione segna una nuova era nella trasparenza della moda», conclude Carrara, specificando di aver ottenuto un finanziamento di 10mila euro circa.

Garantire la tracciabilità

Il digital product passport garantisce la tracciabilità e l’autenticità del prodotto, oltre che la sostenibilità delle materie prime utilizzate.

Il passaporto digitale è già operativo anche sulle calzature. Alberto Masenadore, amministratore delegato dell’azienda veneta Peron Shoes, che ha tra i propri clienti grandi gruppi del lusso francesi e che opera sul mercato anche il proprio brand Via della Paglia, ha spiegato che la spinta a dotarsi del dpp per le calzature è arrivata dalla clientela sempre più esigente e attenta alla catena di fornitura. “E’ così che abbiamo deciso di tracciare l’intero processo produttivo. Siamo in grado di documentare che la scarpa è interamente made in Italy e che i fornitori sono controllati e certificati. Grazie ad alcuni sensori installati nei punti nodali della produzione, ogni passo del processo è registrato su blockchain attraverso la piattaforma Made in Block. All’interno della suola è presente un tag Nfc, una sorta di chip che, a contatto con uno smartphone, permette al consumatore di accedere al digital product passport».

L’azienda ha investito centinaia di migliaia di euro per acquistare e implementare la tecnologia e il processo ed è stata, almeno in parte, finanziata dalla Regione Veneto.

La foto in apertura, di Luca Bruno per AP Photo/LaPresse, raffigura la sfilata di Ermenegildo Zegna alla Milano Fashion Week appena conclusa.


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