Welfare
Cari lavoratori del sociale mettiamocelo in testa: «Noi non facciamo del bene»
Il cooperatore Andrea Morniroli e la giornalista Gea Scancarello firmano un libro scomodo e necessario che punta a riscrivere le regole d’ingaggio del lavoro sociale nei rapporti con la pubblica amministrazione e la pubblica opinione. La recensione

È un libro scomodo quello che firmano Andrea Morniroli e Gea Scancarello. Cooperatore sociale socio della coop Dedalus di Napoli (foto) e coordinatore nazionale del Forum Disuguaglianze e Diversità, lui. Giornalista e autrice televisiva, lei. “Scomodo” fino dal titolo: “Non facciamo del bene”. Scomodo da scrivere per chi è stato protagonista della storia della cooperazione sociale di questo Paese e scomodo da leggere per chi lavora nelle filiere del caring: e lo è non certo per la prosa che scorre senza alcun intoppo.

Scomodo perché mette all’indice in modo certamente diretto, ma mai moralistico la deriva di un mondo del sociale che negli ultimi anni si è rinchiuso nella sua comfort zone accontentandosi di un ruolo da fornitore di servizi, perdendo così la spinta al cambiamento e prima ancora a immaginare mondi che ancora non ci sono. Non a caso i due autori scelgono di chiudere il saggio con una citazione di Franco Basaglia: «L’importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile. Dieci, quindici, venti anni addietro era impensabile che il manicomio potesse essere distrutto. D’altronde, potrà accadere che i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi ancora di prima, io non lo so! Ma, in tutti i modi, abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a condurre una azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L’importante è un’altra cosa, è sapere ciò che si può fare. È quello che ho già detto mille volte: noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere. È il potere che vince sempre; noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare».
«Il lavoro sociale ed educativo è politico o non è». È questo il punto di partenza dichiarato fin dalle primissime pagine. Una prospettiva che, lo ricorda lo stesso Morniroli, gli autori condividono con il fondatore di VITA Riccardo Bonacina. Ma subito dopo affondano il coltello: «...gli operatori sociali hanno spesso perso la consapevolezza del loro agire. Chiunque abbia sfogliato un giornale nell’ultimo ventennio conosce derive che hanno indignato: cooperative piegate alla logica del profitto nel trattamento inumano di migranti, carcerati, marginali». E qui arriviamo subito al punto: «Il lavoro sociale deve rifiutare questa trappola, per rispetto della propria storia, il proprio ruolo, la propria funzione». E aggiungiamo noi, per potersi guadagnare un pezzo di futuro. «Ci vuole però analoga forza nel respingere l’immagine spesso inconscia del lavoro sociale come lavoro che si racchiude nel solo fare del bene, di cura, agito da encomiabili sentimenti e dal desiderio di salvare il mondo».
Nell’ottica degli autori “salvare il mondo” significa rimandare a un idealismo privo di concretezza che alla fine si riduce a una retorica che si ritorce contro come un boomerang. Insomma la retorica degli “angeli del bene” che su queste stesse colonne non ha cittadinanza. «Devono, invece, gli operatori contribuire alla creazione di politiche pubbliche che garantiscono il patto sociale designato magistralmente dalla Costituzione dopo gli orrori del nazifascismo…significa rigettare la mera funzione di gestori di politiche ideate da lontano, cioè di curatori fallimentari dell’esistente. Significa prendere posizione, e costruire posizioni».

Una postura che diventa nella seconda parte del libro un capo d’accusa nei confronti del Terzo settore. Scrivono gli autori: «…sorprende l’eccessivo silenzio di larga parte delle espressioni del cosiddetto terzo settore che continuano ad avere un approccio para-sindacale, in difesa ma privo della capacità di aprire una vertenza tutta politica. Troppi operatori e operatrici, enti e reti di soggetti appaiono rintanati nella gestione dei servizi perché oramai assuefatti al ruolo di erogatori di prestazioni (qualunque sia la loro qualità e indipendentemente dal loro essere abilitatori di autonomia o, al contrario, di mero contenimento delle persone) al posto di riconoscersi attori di politiche. Troppi sono impegnati a ricercare qualche tavolo di concertazione perché oramai incapaci di svolgere un ruolo politico e culturale, dimenticandosi delle proprie origini, del tempo in cui la qualità dei servizi si coniugava, e per questo era vincente, con lo svelamento delle mancanze, con il coraggio della denuncia e con l’organizzazione di vertenze. Un tempo in cui il rapporto con le istituzioni e la politica era collaborativo, ma non collusivo; costruttivo, ma autonomo e indipendente».
E ancora: «…Troppo spesso ha accettato di sostituirsi malamente allo Stato nella gestione dei servizi, nell’ambito del sociale o di servizi pubblici a basso contenuto tecnologico. In altre parole, troppe volte le cooperative, schiacciate da politiche di disinvestimento e da forti spinte alla privatizzazione, ma anche da una rincorsa insensata ai tecnicismi o allo scimmiottamento delle imprese profit, sono scivolate in logiche, dinamiche e modalità distanti, a volte molto distanti e in forte contraddizione, con quanto raccontano pubblicamente su di sé e sulle loro attività».
“Non facciamo del bene” non solo è un saggio scomodo e necessario, è anche un punto di partenza, una visione non completa, una partenza che non scorge accora un arrivo. Che chiama gli stessi autori (e con loro tutti noi) a scaldare penna e menti per mettere meglio a fuoco le domande che il libro apre. Domande che si possono condensare in un interrogativo unico: come costruire una coscienza politica dentro un settore con stipendi da worker poor a cui corrisponde un riconoscimento sociale sempre più di facciata?
Incominceremo a parlarne a Milano giovedì 9 giugno alle ore 17 presso la sede delle Acli provinciali, in via della Signora 3

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