Medio Oriente

Cisgiordania, così la comunità di Masafer Yatta sceglie la nonviolenza davanti alle aggressioni dei coloni israeliani 

Awda Hathaleen, 31 anni, attivista palestinese del villaggio di Masafer Yatta è stato ucciso da un colono israeliano. «A Masafer Yatta l’occupazione è sempre più feroce», dicono i volontari di Operazione Colomba che vivono a fianco dei palestinesi. «Gli attacchi dei coloni sono in aumento e l'esercito israeliano non solo non contrasta queste iniziative, ma agisce in piena sintonia con i coloni stessi. L'obiettivo è chiaro: i palestinesi non devono avere un futuro lì. Ma gli abitanti di Masafer Yatta continuano a praticare la nonviolenza, che è davvero una testimonianza del loro incredibile coraggio»

di Anna Spena

Awda Hathaleen, 31 anni, attivista palestinese e residente del villaggio di Umm al Khair, Masafer Yatta, a sud della città di Hebron, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco da Yinon Levy, un colono israeliano noto per il suo coinvolgimento in aggressioni contro civili palestinesi. Tra il primo gennaio e il 21 luglio 2025, 159 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania. Tra il 15 e il 21 luglio, due palestinesi sono stati uccisi (un adulto e un bambino) e almeno 45 feriti, di cui la maggior parte (39) da forze israeliane e sei da coloni israeliani. Il 24 luglio 2025, esperti delle Nazioni Unite hanno espresso grave preoccupazione per le violazioni sistematiche e continue da parte dei coloni israeliani e delle forze di sicurezza israeliane contro agricoltori e lavoratori rurali palestinesi nella Cisgiordania occupata. Hanno evidenziato un modello inquietante di attacchi che includono incendi dolosi, furto di bestiame e avvelenamento o distruzione di fonti d’acqua, stimando danni agricoli diretti per 76 milioni di dollari in Cisgiordania tra il 7 ottobre 2023 e la fine del 2024. Hanno inoltre riportato una diminuzione del Pil della Cisgiordania di oltre il 19% e un aumento del tasso di disoccupazione al 35%.

Masafer Yatta è una zona protagonista del documentario “No Other Land”. Abbiamo parlato con i volontari di Operazioni Colomba (che per motivi di sicurezza rimangono anonimi) che vivono fianco a fianco dei palestinesi sulle colline a Sud di Hebron. Nell’ultimo report pubblicato sul sito dell’associazione si legge: «A giugno, nella zona di Masafer Yatta, l’occupazione dei territori palestinesi si è tradotta in continue invasioni, aggressioni e intimidazioni dei coloni israeliani, con la complicità di esercito e polizia. Le invasioni dei campi sono diventate praticamente quotidiane; il modus operandi è sempre lo stesso: i coloni, spesso armati, accedono con il proprio gregge alla terra, devastando i campi e provocando la reazione del pastore palestinese. In alcuni casi i coloni hanno addirittura aggredito fisicamente i palestinesi, legittimi proprietari delle terre, e danneggiato le loro abitazioni. Gli sporadici interventi della polizia hanno sempre avallato l’operato dei coloni; in alcuni episodi la polizia ha concluso l’azione “sequestrando” (non si può parlare di arresto, la c.d. illegal abduction) i palestinesi colpiti, che non avevano commesso alcun illecito, solo perché esercitavano resistenza nonviolenta ad un sopruso». 

L’occupazione «è sempre più feroce», dicono i volontari. «Gli attacchi dei coloni sono in aumento e l’esercito israeliano non solo non contrasta queste iniziative, ma agisce in piena sintonia con i coloni stessi. Polizia, esercito e coloni sono un tutt’uno e contano sull’azione di questi ultimi per portare avanti un progetto di pulizia etnica della zona. L’obiettivo è chiaro: i palestinesi non devono avere un futuro lì». L’assassino di Awda Hathaleen «è ancora libero e impunito. Nella migliore delle ipotesi, potrebbe essergli ritirata l’arma, ma si tratterebbe di una formalità».

I volontari di Operazione Colomba vivono fianco a fianco con i palestinesi e li sostengono in vari modi. A volte si interpongono tra i coloni e i palestinesi, sempre senza ricorrere alla violenza, offrendo una forma di protezione civile. Altre volte, il loro ruolo principale è quello di filmare e documentare ciò che accade, diventando una cassa di risonanza per la voce dei palestinesi. «Il nostro passaporto fa ancora la differenza a livello internazionale, e ci garantisce una protezione che i palestinesi non hanno perché il loro passaporto non sarebbe “degno di esistere” per parte della comunità internazionale». 

«Circa 3mila persone sono rimaste in questa zona», raccontano i volontari. «Sono pastori, contadini, famiglie, che ogni giorno si confrontano con la presenza di coloni, armati e violenti. E tutti scelgono di continuare a praticare la nonviolenza che è davvero una testimonianza della loro incredibile resilienza e del loro coraggio. Questo popolo, nonostante sia costretto a vivere in una condizione di apartheid, continua a resistere in modo ammirevole».

I palestinesi desiderano che il mondo sappia che «esiste un regime di apartheid e un genocidio in atto, che non si limita solo a Gaza, ma si manifesta in molteplici forme, come la colonizzazione di queste zone. Questa situazione, purtroppo, riceve meno attenzione mediatica, ma la strategia di base è la stessa: pulizia etnica. E l’Italia, come altri stati, è complice di questa situazione. Dobbiamo testimoniare per loro quello che sta accadendo e ricordare che questa condizione non è iniziata il 7 ottobre 2023, ma ha radici ben più profonde e si è intensificata proprio in seguito a quell’evento, che ha fornito il pretesto per un’escalation di violenza e ferocia. I palestinesi chiedono che gli altri Stati non siano complici delle azioni di Israele».

AP Photo/Mahmoud Illean/LaPresse

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