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Clima, il Piano nazionale di adattamento? Un piano a metà

All'inizio dell'anno il governo ha annunciato la pubblicazione, attesa sin dal 2015 del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Per Francesco Musco, urbanista dello Iuav di Venezia è «un ottimo strumento di conoscenza, ma non è operativo». Il climatologo Marcello Petitta di Tor Vergata sottolinea perché prepararsi agli scenari futuri di innalzamento della temperatura media globale è cruciale per la società come la conosciamo

di Elisa Cozzarini

Foto di Adrien Olichon su Unsplash
Amsterdam, foto di Adrien Olichon su Unsplash

«Quando si parla di clima, ci si riferisce a una scienza. Sono le parole “cambiamento” e “adattamento” che mettono al centro un osservatore, qualcuno che ha notato una variazione, rilevante dal punto di vista sociale, economico, politico», spiega Marcello Petitta, fisico e climatologo all’Università di Tor Vergata di Roma, all’indomani dell’approvazione del Piano nazionale di adattamento – Pnacc. «Nel mio lavoro, collaboro con sociologi, psicologi, economisti, proprio per capire come il cambiamento climatico ha un effetto su altri insiemi della società».

Se ne parla sin dal 2015, dopo l’approvazione della Strategia nazionale di adattamento: il Piano è lo strumento di attuazione. Nel frattempo, alcune Regioni si sono attivate e hanno elaborato i loro Piani. Francesco Musco, docente di Urbanistica all’Università Iuav di Venezia commenta: «Il Pnacc fornisce un quadro di conoscenza generale molto buono, ma non è operativo. Gli impatti del cambiamento climatico si verificano sui territori: sono le Regioni, i sindaci, a doversene occupare. Questi i soggetti hanno bisogno di strumenti urbanistici per attuare l’adattamento».

Nel Pnacc sono elencate 360 tipologie di azioni: soft sono quelle che si riferiscono alla gestione, grey sono gli interventi fisici di trasformazione dei territori e green sono le soluzioni basate sulla natura, l’uso del verde al fine dell’adattamento. «Ma la descrizione di queste azioni ha il limite di non essere spazializzata. C’è un problema di quadro conoscitivo locale. Manca la possibilità di agganciare gli interventi ai vari Piani di governo del territorio, paesaggistici, etc., per cui sono già previsti anche dei fondi».

Per l’urbanista dello Iuav, insomma, il problema non sono le risorse ma la mancanza di un collegamento tra le azioni di adattamento e gli strumenti di pianificazione territoriale. Così fanno i Paesi bassi, un riferimento in materia a livello europeo, vista la loro storia di terra strappata all’acqua. Qui tutta la programmazione strutturale risponde a criteri di adattamento. Negli ultimi anni hanno cambiato completamente filosofia, stabilendo l’impossibilità di proteggere tutto il Paese e definendo alcune aree come esondabili, sacrificabili, un concetto che in Italia non viene nemmeno preso in considerazione.

«Il fatto stesso che a elaborare il Piano, in Italia, sia stato il Ministero dell’Ambiente, e non ad esempio quello delle Infrastrutture, o la stessa Presidenza del Consiglio, rappresenta un errore», aggiunge ancora Musco, criticando anche la scelta di istituire un Osservatorio con funzioni di indirizzo e coordinamento per la pianificazione e attuazione di azioni di adattamento. «Serve invece una cabina di regia con le Regioni, con persone dedicate solo a questo, non si può pensare che ci si autorganizzi. Qui, sì, servono risorse».

Su scala locale, tra i pochi che si stanno muovendo, il Friuli Venezia Giulia, nell’elaborare la variante al Piano di governo del territorio regionale, ha inserito una serie di quadri sull’adattamento. Così la Provincia di Rimini, nel ridisegnare il Piano di area vasta, ha previsto una parte dedicata agli impatti del cambiamento climatico e alle possibili soluzioni, in modo da fornire ai Comuni uno strumento che sia, appunto, operativo.

Di fronte alla sfida del cambiamento climatico, Petitta ricorda che «bisogna intervenire con azioni di mitigazione, ossia la riduzione, fino all’eliminazione, delle emissioni di gas serra, con eventuali possibili tecnologie che ne permettano l’assorbimento». Le misure di adattamento devono andare di pari passo, perché alcuni impatti non si potranno evitare, anche se si smettesse domani di usare combustibili fossili – il che non accadrà. «Il cambiamento climatico ha modificato il modo in cui gli eventi meteorologici si manifestano sul territorio. Anche senza considerare gli episodi più catastrofici, che comportano anche delle vittime, pensiamo ad esempio alla variabilità nella produzione agricola, che dipende da elementi quali temperatura e disponibilità d’acqua. Adattarsi significa adottare azioni che permettano di proseguire le attività economiche, sociali, politiche… A questo serve un piano, un documento di riferimento per le amministrazioni, che, oltre a considerare quello che è accaduto nel passato, fa riferimento agli scenari climatici, tiene cioè conto di come sarà il clima nel futuro, in base ai modelli elaborati dai più importanti centri di ricerca e Università del mondo».

Foto di Adrien Olichon su Unsplash

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