Adozioni
Da mamma adottiva a nonna: il racconto in prima persona
Cosa significa diventare nonna essendo (anche) mamma adottiva? Lo racconta in prima persona Maria Enrica Simoni, che diventerà nonna per la prima volta tra qualche giorno: suo figlio Sasha e la compagna Emily aspettano Alessandro. Questa è la seconda tappa dell'inchiesta di VITA
Su VITA abbiamo scelto di ospitare il racconto delle emozioni di alcune mamme adottive mentre fanno i conti con una nuova identità: quella di “nonna”, e non più (solo) di mamma.
Dopo aver ospitato le riflessioni di tre esperte (Da mamma adottiva a nonna: gioie e tormenti del nuovo ruolo), oggi accogliamo la testimonianza di Maria Enrica Simoni, che diventerà nonna per la prima volta tra qualche giorno: suo figlio Sasha e la compagna Emily aspettano Alessandro.
Ecco le sue parole:
«Il tempo passa in fretta, vedrai». È stata questa, per tanti anni, la frase con cui mio marito ed io abbiamo salutato Sasha, nostro figlio, quando ancora non era nostro figlio e doveva rientrare in Bielorussia. A distanza di anni, quelle parole risuonano con una dolce nostalgia. Oggi che sono seduta in poltrona a sferruzzare una copertina con i colori del mare per Alessandro, il bambino di Sasha e Emily, che nascerà tra pochi giorni. Metto insieme un dritto e un rovescio, lascio che i pensieri arrivino a onde senza frenarli. Intreccio fili di lana e di vita, ripercorrendo ogni nodo e trama.
Sono intasata di ricordi. Di foto, di luoghi, di giochi. Per Sasha, però, non ho mai fatto un lavoro a maglia: aveva già nove anni quando lo abbiamo conosciuto, nel 2004. E nei sette anni che ci sono voluti affinché potessimo adottarlo io ero troppo impegnata ad amarlo, a creare legami e sciogliere nodi nel quotidiano.
Nei sette anni che ci sono voluti affinché potessimo adottarlo io ero troppo impegnata ad amarlo, a creare legami e sciogliere nodi nel quotidiano.
Maria Enrica Simoni
Anche se ormai ha 29 anni, non avevo ancora considerato l’idea che potesse diventare padre e ho accolto la notizia con una leggera tristezza. Sono andata sola a camminare sull’argine e ho pianto. Non ero preparata, non mi sentivo ancora pronta ad abbandonare il mio ruolo di “solamente madre”. Ho percepito come uno strappo, il distacco che giustamente deve avvenire. Mi ha fatto male, forse, dico oggi, più del dovuto. Ma non ci sono bilance in queste nostre vite.
Non mi rimprovero, per quelle lacrime. Provo, per me, per noi, della tenerezza.
Sarà perché mi sono mancati mesi, giorni, minuti e attimi importanti della sua vita, che adesso mi sento senza fiato.
Sarà che per formare la nostra famiglia c’è voluto tanto tempo e tanta pazienza.
Sarà che il 26 aprile 1986 l’esplosione del quarto reattore della centrale nucleare di Chernobyl ha causato dolore per molte famiglie, e a noi ha permesso di incontrare nostro figlio. È un fatto che ogni anno, il 26 aprile, non dimentico.
Sarà che anziché lottare contro le nausee, io ho dovuto lottare contro la burocrazia e la miopia di una politica che ci ha fatto aspettare a lungo prima di poterlo adottare.
Il tempo passa in fretta, dicevamo.
Alla prima visita ginecologica, mio figlio ha sentito il battito cardiaco di quel “fagiolino” e, nel mostrarmi l’ecografia, ho visto nei suoi occhi una luce che non avevo mai incontrato. Mi ha stretto forte a sé e mi ha invaso di quella immensa e sconosciuta felicità che non avevo mai provato.
All’ultima visita, sono stata invitata anche io. Sentire battere un cuoricino è stata una vertigine immensa e misteriosa che ha scosso ogni singola fibra del mio corpo. Ha portato a galla dei sottili frammenti di dolore, ma allo stesso tempo gli ha ridato un posto all’interno di questo grande arazzo che è la nostra famiglia meravigliosa, fatta di storie e culture diverse, di lingue, di colori, di terre lontane e di confini superati.
Sentire battere un cuoricino ha portato a galla dei sottili frammenti di dolore, ma allo stesso tempo gli ha ridato un posto all’interno di questo grande arazzo che è la nostra famiglia meravigliosa
Maria Enrica Simoni
Sono tornata su quel fiume, dove alcuni mesi fa avevo pianto, e ho sorriso. Le nuove emozioni hanno spinto indietro quelle vecchie, e le ferite riemerse che credevo dimenticate sono diventate più sottili, come se tra noi fosse stato finalmente siglato un armistizio.
Portare fuori questi ricordi serve a riporli dentro. A trovare un nuovo spazio dove accoglierli. Perché se li lasci solo nelle lacrime, gli occhi ti bruciano. Oggi i miei occhi brillano.
Erano tante le cose che mi mancavano nella mia attesa, prima dell’adozione, oggi capisco che si trattava di piccole cose, restituitemi in parte quando Sasha è finalmente arrivato.
Credo che la nascita di Alessandro sarà una rinascita per tutti noi, permetterà a me e mio marito di vivere quei giorni e quei minuti che ci sono mancati con il suo papà.
Io, che non ho visto Sasha nascere, che non ho sentito le sue prime parole né visto i suoi primi passi, potrò vivere queste emozioni attraverso suo figlio.
Questo articolo fa parte di una serie. Puoi leggere anche Da mamma adottiva a nonna: gioie e tormenti del nuovo ruolo con le voci di Daria Vettori, Marcella Griva e Daniela Bertolusso, La “nonnitudine adottiva”? Non esiste con l’intervista ad Antonella Miozzo e Da mamma adottiva a nonna: la sorpresa della vita che continua, con l’intervista a Daniela Marengo. Gli abbonati di VITA possono ricevere ogni martedì la newsletter “Dire, fare, baciare” sui temi legati a famiglia, educazione e scuola e ascoltare le storie di famiglie affidatarie raccolte da Giampaolo Cerri, giornalista e padre affidatario, nel podcast “Genitori a tempo, genitori e basta”.
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