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Ucraina, 7/10, Gaza: solo dalla società può nascere la pace

Una nuova guerra, quella fra Israele e Hamas, dopo l'invasione russa dell'Ucraina. E l'esodo armeno dal Nagorno, poche settimane fa. Non c'è soluzione allo scontro permanente? Il giornalista esule russo, Alexander Bayanov, riprendendo la riflessione di Marinella Sclavi, è convinto di sì

di Alexander Bayanov

Il conflitto in corso tra Israele e Hamas ha colto la comunità mondiale di sorpresa. Non è ancora finita la fase attiva della guerra in Ucraina, davanti ai nostri occhi è accaduto il tragico esodo, di dimensioni bibliche, del popolo armeno di Arzach dal Nagorno-Karabakh e ora si è acutizzato il conflitto “arabo israeliano”, come erano usi chiamarlo i media di tutto il mondo già 30, 40, 50 anni fa.

Un ritorno al passato

Sembra, leggendo le notizie, di essere tornati alla fine del secolo scorso: il rinfocolarsi dei conflitti nazionali, la caduta dell’Unione sovietica, l’infinita guerra tra Israele e la Palestina … Sia io che molti altri giornalisti russi in esilio e anche la stampa italiana, pensavamo che l’attenzione per la guerra in Ucraina sarebbe diminuita, che sarebbe passata in secondo piano e che il volume degli aiuti destinati a questo Paese avrebbe subito una frenata. Il politologo russo emigrato, Alexander Morozov, ha un’opinione diversa: la macchina degli aiuti all’Ucraina è ormai avviata e non è possibile fermarla, nonostante la tragedia in corso in Israele e la possibile operazione di terra da parte di Israele nella striscia di Gaza.

Ecco le sue parole: «Ebbene, prima di tutto, ciò che sta accadendo adesso in Israele, l’attacco di Hamas e la risposta a esso, sono eventi molto più ampi, in termini di livelli di conflitto, di quanto abbiamo visto negli ultimi 10-15 anni. E ancora non sappiamo, e questo è il problema grande e principale, come andrà a finire. Israele ha subito perdite ingentissime, bambini sono stati uccisi, vi sono stati episodi di violenza davvero mostruosa. Non sappiamo ancora come finirà l’operazione israeliana nella Striscia di Gaza. Non sappiamo ancora se l’Iran sarà coinvolto nel conflitto, in quale forma e così via. Ma possiamo dire con certezza che, sebbene l’attenzione sia ora focalizzata su ciò che sta accadendo in Israele, allo stesso tempo, a mio avviso, ciò non danneggia le ulteriori attività dell’alleanza globale a sostegno dell’Ucraina».

Ma i nuovi scenari non fermeranno l’aiuto all’Ucraina

Continua Morozov che «è stata formata un’alleanza globale che comprende più di 60 paesi, il “Ramstein Group” e le conferenze congiunte con i paesi del Sud del mondo a Copenaghen, poi si sono svolte altre due conferenze. Si tratta di un sistema di sostegno molto ben consolidato e rimarrà tale indipendentemente da come si svilupperanno gli eventi in Israele. Inoltre, vediamo bene che molti politici negli Stati Uniti e in Europa hanno già messo Ucraina e Israele “uno dietro l’altro, separati da una virgola” dal punto di vista della necessità di sostegno, perché si vede chiaramente che molti credono che quelle che hanno organizzato l’aggressione contro l’Ucraina e l’attacco a Israele siano approssimativamente le stesse forze di destabilizzazione Ciò non significa che il Cremlino abbia istigato direttamente l’attacco contro Israele, attraverso Hamas. Ma ciò che Europa e Stati Uniti vedono chiaramente è che l’aggressione di Putin ha portato a un riavvicinamento senza precedenti tra Russia e Iran. E tra Russia e Iran è iniziato lo scambio di tecnologie e mezzi militari. D’altra parte, si è potuto constatare che la posizione di Israele riguardo alla guerra in Ucraina ha cominciato a irritare il Cremlino, almeno negli ultimi sei mesi. Se all’inizio Israele aveva assunto una posizione più equilibrata e moderata, prendendo le distanze da questa guerra, poi, man mano che essa continuava, la sua posizione è cambiata: Israele era pronto a fornire armi all’Ucraina».

Il 7/10 di Hamas come l’Ucraina di Putin?

Secono il politologo, «emerge quindi un quadro in cui, dal punto di vista della destabilizzazione della situazione globale internazionale nel suo insieme, l’attacco di Hamas a Israele è equivalente a quello fatto dal Cremlino nel 2022 all’Ucraina. Naturalmente, tutto ciò ha un costo anche per i paesi europei, perché si tratta di spese enormi. Non si tratta solo della spesa militare, ma anche dei costi sociali interni per l’accoglienza. Ci sono inevitabili problemi per le loro stesse economie, perché azioni militari di questo tipo influenzano il mercato del lavoro in ogni paese, e ovviamente tali guerre portano ad un’inflazione accelerata, anche in economie molto stabili. Nessuno vuole questa destabilizzazione. Di conseguenza mi sembra che qui, letteralmente tra due o tre mesi, si riveleranno le forze “guerrafondaie”, come si suol dire, “istigatrici di violenza”. Il Cremlino, insieme ad Hamas e Hezbollah, saranno tra queste»

Molti dei miei amici e conoscenti che fin dall’inizio della guerra in Ucraina hanno preso posizione in suo favore, considerando evidente il fatto che in quel conflitto la Russia era l’aggressore e l’Ucraina la vittima, nel conflitto tra Israele e Hamas improvvisamente hanno cominciato a dire una frase che ricorre spesso anche qui in Italia: «Eh, però è complesso …».

L’antidoto alla fuga nella complessità

Questo mi ha messo molto a disagio e sarei forse rimasto in questa posizione se non avessi avuto l’occasione di leggere, su VITA, l’intervista a Marianella Sclavi. Orti al posto di muri, dice, e per spiegare questo slogan aggiunge: «Non si tratta di vivere in pace, si tratta di progettare insieme. Un progetto a cui devono partecipare comunità che ora si odiano, vogliono vendetta, non si fidano gli uni degli altri».

Una missione del Mean in Ucraina. Al centro, Marinella Sclavi

Questa espressione, “comunità locali”, mi ha illuminato. Prima della guerra e della mia partenza obbligata dalla Russia, partecipavo ad un gruppo di lavoro per il superamento dei conflitti locali nella regione di Novosibirsk. A capo di questo gruppo si trovava Irina Skalaban, sociologa e docente presso l’Università Tecnica Statale di Novosibirsk. Comunicando la propria esperienza nel testo Chi si difende. Le funzioni difensive delle comunità nei conflitti urbani con i suoi colleghi scrive così: «Poiché la difesa presuppone una garanzia di sicurezza e delle azioni per realizzarla, essa viene per lo più delegata allo Stato, come garante ultimo. Tuttavia c’è un soggetto che ha ricoperto questa funzione durante tutta la storia sociale dell’umanità: è la società civile. In questo contesto, la società civile è una forma di auto-organizzazione degli individui intorno a un’appartenenza comune o a interessi condivisi, un modo per difendere l’individuo dalle azioni distruttive dell’ambiente circostante, la realizzazione delle sue esigenze di sicurezza, identità, mantenimento dei confini. Se le minacce si acuiscono, i suoi membri possono scegliere delle strategie di comportamento alternative: una resistenza passiva (l’inasprimento dei confini e del controllo all’interno del gruppo), oppure una resistenza attiva (il confronto per la difesa dello spazio conquistato, simbolico o fisico)».

La ricerca di una lingua comune

E in oltre: «La predominanza dell’obiettivo negativo nell’avvio e nell’escalation del conflitto è naturale perché si tratta di una reazione a un fattore scatenante, a una sfida esterna. Questo obiettivo negativo, in una situazione in cui è indispensabile agire subito, in modo chiaro e concreto, ha un grande potenziale per la mobilitazione. Tuttavia, nel caso in cui nel corso del conflitto le parti riescono a trovare una lingua comune o la società, grazie all’influsso dei propri leader o di soggetti esterni, riesce a scorgere delle prospettive di normalizzazione della situazione in forme per lei accettabili, allora l’obiettivo negativo può diventare positivo, e la società uscirà dal conflitto con una maggiore propensione alla collaborazione»[1]. L’approccio di Marianella Sclavi e di Irina Skalaban è simile in ciò che è fondamentale: solo nelle società locali è possibile trovare la chiave per la soluzione dei conflitti ai vari livelli. Questa chiave è la collaborazione, che inevitabilmente sorge in pratica nell’organizzazione della vita della gente nel posto in cui si sviluppa il conflitto.

Più comprensibile l’azione del Mean

Diventano così comprensibili gli sforzi di Movimento europeo di Azione nonviolenta – Mean in Ucraina, nell’organizzazione della collaborazione tra le società civili di Italia e nel Paese invaso e nell’aiuto e nel sostegno dato alla società civile ucraina. È un lavoro fondamentale e nobile guardare alla persona e alle sue esigenze in una situazione concreta, e darle la possibilità di sentire materialmente la solidarietà. Quando la persona sa di non essere sola nel suo dolore e nelle sue difficoltà, questo fa ardere il cuore e genera un creativo desiderio di cambiamento. Questo approccio da parte di attivisti, studiosi, sociologi e conflittologi in sostegno delle comunità locali, è in grado – nelle attuali condizioni di globalizzazione – non solo di abbassare la paura e l’insicurezza, ma anche di diventare una risorsa non solo per una collaborazione ma anche per la soluzione di conflitti di vecchia data.

Parlando di “città globale”, Zygmunt Bauman nel suo Città di paure, città di speranze (Castelvecchi) dice: «La città è un abisso di terrori e paure, generati dall’insicurezza e dall’incertezza globali; ma la città è anche un laboratorio in cui possono essere verificati e, alla fin fine, fatti propri e adottati dei metodi per limitare e superare questa incertezza e questa insicurezza. Proprio nella città, sconosciuti, che nello spazio globale sono in opposizione l’uno all’altro come degli Stati in guerra, delle civiltà nemiche o degli avversari militari, si incontrano come singoli individui, si guardano a vicenda nei quartieri, conversano gli uni con gli altri, imparano gli uni dagli altri, arrivano a stabilire regole di vita comuni, sviluppano una collaborazione e, presto o tardi, si abituano alla presenza reciproca e trovano sempre più piacere nella reciproca compagnia. Dopo questa preparazione a livello locale, questi sconosciuti possono smettere di suscitare agitazione e paura quando si arriva alla soluzione di problemi globali: delle civiltà incompatibili possono dimostrarsi in fondo non così incompatibili e l’inimicizia reciproca non così profonda come si pensava. Prendere le armi non è dunque l’unico né il miglior modo per risolvere i conflitti».


[1] Skalaban I.A., Sergheeva Z.N., Lobanov Ju.S. (2022) Chi si difende. Le funzioni di difesa delle società nei conflitti (a partire dalla documentazione della città di Novosibirsk // Mir Rossii. Т. 31. No 4. С. 33–56. DOI: 10.17323/1811-038X-2022-31-4-33-56

Nella foto di apertura, di Nor Kedmi per Associated Press/LaPresse, civili israeliani in fuga dal villaggio di Rehevot, durante un lancio di missili dalla Striscia di Gaza, il 13 ottobre scorso.


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