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Medio Oriente

Sclavi: «Potenziamo le voci della società civile e di chi prova a convivere»

«Hamas e il Governo di Netanyahu sono lo specchio, in modi diversi, l’uno dell’altro», dice Marianella Sclavi, esperta dei processi di ricostruzione e gestione creativa dei conflitti. «Invece bisogna guardare a quelle realtà miste fatte da israeliani e palestinesi, musulmani ed ebrei, che collaborano tra loro, si parlano. É la loro voce che va ascoltata, potenziata. Non si tratta di pace, almeno non ora, si tratta di progettare insieme come vivere»

di Anna Spena

È salito a 3.200, circa 11mila i feriti, il bilancio delle vittime degli attacchi dell’esercito israeliano sulla Striscia di Gaza dall’inizio dei combattimenti. 1.400, invece, sono le vittime israeliane, oltre 3mila le persone rimaste ferite. Ieri sera, 17 ottobre, l’attacco all’ospedale al-Ahli Arabi di Gaza, che ospitava migliaia di rifugiati.

Oltre 500 i morti, soprattutto donne e bambini. Israele e Hamas si scambiano accuse sull’attacco. Il conflitto tra Israele e Palestina non è iniziato lo scorso sette ottobre. Ma un’escalation di queste dimensioni ha lasciato attoniti molti. La domanda prioritaria non è perché e come si sia arrivati a questo, ma: cosa dobbiamo e possiamo fare per fermare questa carneficina umana?

«Bisogna andare controcorrente», dice Marianella Sclavi, che ha insegnato etnografiaurbana, arte di ascoltare e gestione creativa dei conflitti al Politecnico di Milano e collabora da anni a progetti di risanamento dei quartieri in crisi. È membro della Fondazione Alexander Langer di Bolzano e si è occupata dei processi di ricostruzione e gestione creativa dei conflitti in Kosovo e Palestina-Israele. Oggi è una delle fondatrici e portavoce del Mean – Movimento europeo di azione non violenta, che dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, denuncia l’urgenza e la necessità di creare Corpi Civili Di Pace.

Andare controcorrente, dice, significa «guardare a quelle realtà e associazioni miste fatte da israeliani e palestinesi, musulmani ed ebrei, che collaborano tra loro, si parlano. É la loro voce che va ascoltata, potenziata. Anche se non hanno nessuna incidenza nelle decisioni governative». Ne sono un esempio la realtà di Neve Shalom/Wahat al Salam, un villaggio cooperativo abitato da arabi palestinesi ed ebrei israeliani, fondato da Bruno Hassar a ovest di Gerusalemme nel 1972 su un terreno preso in affitto dal monastero di Latrun. E ancora l’associazione Standing Together, movimento di base che mobilita i cittadini ebrei e palestinesi di Israele alla ricerca di pace, uguaglianza e giustizia sociale e climatica. Si raccontano così: “Mentre la minoranza che beneficia dello status quo dell’occupazione e della disuguaglianza economica cerca di tenerci divisi, sappiamo che noi – la maggioranza – abbiamo molto più in comune di ciò che ci separa. Quando siamo uniti, siamo abbastanza forti da modificare radicalmente la realtà socio-politica esistente. Il futuro che vogliamo – pace e indipendenza per israeliani e palestinesi, piena uguaglianza per tutti i cittadini e vera giustizia sociale, economica e ambientale – è possibile”. 

«È l’ascolto reciproco», dice Sclavi, «che apre la strada alla moltiplicazione delle opzioni e alla co-progettazione di futuri reciprocamente desiderabili.  Il sistema portato avanti in Palestina è un sistema di apartheid, e allo stesso modo le colonie ebraiche in Cisgiordania, territorio occupato, vivono comunque in un sistema chiuso. Manca completamente la capacità di trasformare la diversità in risorsa, capacità che invece hanno i gruppi citati sopra. E come lo fanno? Collaborando tra loro». 

Siamo davanti: «a una situazione insensata», dice Sclavi. «situazione insensata da un lato e dall’altro e sono loro – Hamas e Netanyahu – i signori dell’occhio per occhio dente per dente, che hanno il potere… Dobbiamo dare voce a chi va nella direzione opposta, e ci va da molto tempo. Un dialogo con Hamas e Netanyahu è da escludere, con loro non si può parlare, vanno solo sconfitti. Sono lì da molto tempo e sono lo specchio, in modi diversi, l’uno dell’altro. Hanno due approcci autocrati: “chi non è complice è nostro nemico”».

Ma come si sconfiggono? «Mostrando un’alternativa possibile, concreta. C’è un tessuto sociale israeliano e palestinese ricco. Un dialogo che umanamente funziona tra le persone che ne prendono parte. Un tentativo di uscire dalla polarizzazione. Costruire modalità di convivenza comune e appartenenza tra i due Stati è l’unica o opzione possibile, non si risolve il problema con ghetti e isolamento».

Ma la costruzione di questa convivenza è ancora possibile? Non c’è il rischio che i fatti degli ultimi giorni abbiano segnato una rottura insanabile? «Quando noi proponiamo i corpi civili di pace», spiega Marianella Sclavi, «proponiamo una forza formata da civili che operano nelle zone di conflitto, in Ucraina come a Gaza, o nelle altre drammatiche guerre nel mondo. Non si tratta di vivere in pace, si tratta di progettare insieme. Un progetto a cui devono partecipare comunità che ora si odiano, vogliono vendetta, non si fidano. Bisogna arrivare lì, avere l’autorevolezza e i fondi, per ripensare all’organizzazione della vita quotidiana. Mettere in piedi un progetto di costruzione che vada a beneficio di tutti. Lo slogan è: “orti al posto di muri”. Ripeto che non è una questione di pace, non adesso almeno. È invece dare alle persone la possibilità di progettare come fisicamente vogliono vivere. La situazione è così drammatica che non c’è più via d’uscita? Forse sì. E allora se è così drammatica dobbiamo esplorare anche le possibilità di soluzioni non credibili».

Gaza/Photo © Saher Alghorra/Avalon/Sintesi

 


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