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E adesso liberiamo Vattimo dall’equivoco del pensiero debole

È morto martedì 19 settembre il filosofo Gianni Vattimo, allievo di Pareyson e Gadamer, studioso di Heidegger, approfondì a lungo il tema della verità. Famoso come teorico del "pensiero debole", il suo in realtà non è un elogio lieto del nichilismo ma un affrontare - come nella kénosis cristiana - la vertigine dell'essere come possibilità e come scelta e dello stare sull'orlo dell'abisso

di Massimo Iiritano

«Insomma io credo che mi intendessi abbastanza bene con Quinzio; gli devo molto, e l’ho detto anche nel mio libro Credere di credere che, anche se è uscito proprio qualche settimana prima che lui morisse, vorrei in un certo senso dedicare alla sua memoria»: così diceva Gianni Vattimo in un’intervista che gli fece alla radio Gabriella Caramore il 22 marzo 19981. È vero, quel libretto, a suo modo “scandaloso” di Vattimo, è stato uno degli ultimi che io abbia visto sulla scrivania di Sergio. Già letto e annotato, discusso con me a altri suoi allievi, oggetto di perplessità e insieme di grande attenzione. Un libretto che Sergio percepiva come dialogante con la stanchezza della sua stessa fede. Debole, troppo debole agli occhi della sua visione tragica di una “sconfitta di Dio” come prospettiva inquietante e apocalittica della fine, da poco riaffacciatasi nelle pagine del suo Mysterium iniquitatis.

«L’incontro con Quinzio è stato davvero molto importante per l’elaborarsi degli ultimi sviluppi della mia riflessione filosofica. Un incontro che è avvenuto, come spesso succede in questi tempi così pieni di dibattiti, perché siamo stati invitati insieme da qualche parte. L’incontro è stato da subito molto cordiale e sincero, ed è stato anche l’inizio di un fitto dialogo che ha avuto luogo soprattutto nelle discussioni che prolungavano senza fine le serate insieme. Quindi io sono molto contento dell’incontro con Quinzio, innanzitutto sul piano dell’amicizia. E poi sono stato, come dire “impressionato” da alcune delle cose che costituiscono il nocciolo del suo lavoro e della sua riflessione e anche certamente della sua personalità», ricordava Vattimo.

Quel dialogo è stato sincero, intenso, significativo. Nel segno dell’amicizia, della simpatia profonda, della vivacità autentica di uno scambio mai puramente intellettuale. Ricordo l’impressione forte, di amicizia appunto, che Sergio aveva riportato un giorno al suo rientro da Torino, dove si era appena incontrato con Vattimo. La simpatia vera che emergeva dalla sue parole, dal suo racconto, pari alle perplessità e agli interrogativi che quella posizione filosofica sulla fede in lui inevitabilmente generava.


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Credere di credere era stato interpretato come la religione del “pensiero debole”: equivoco e semplificazione ulteriore di quell’equivoco originario, che per molto tempo assimilò Vattimo al felice titolo di un libro scritto a più mani, Il pensiero debole, appunto. Equivoco perché è certamente impossibile assimilare del tutto la filosofia di Vattimo a quella posizione; equivoco perché nella stessa definizione di “pensiero debole” non si coglieva la drammatica e profondissima forza di una capacità di leggere i segni dei tempi, di interpretare in maniera autentica e inattuale l’eredità della grande filosofia contemporanea europea. 

Vattimo è stato innanzitutto, per tutti noi studenti di filosofia degli anni ‘90, la via privilegiata, inevitabile, di accesso alla più enigmatica ed epocale filosofia del ‘900, quella di Martin Heidegger. E Vattimo è riuscito non solo a farci comprendere quella filosofia, ma soprattutto a farcene percepire l’attualità, la necessità. 

La definizione di “pensiero debole” non si coglieva la drammatica e profondissima forza di una capacità di leggere i segni dei tempi, di interpretare in maniera autentica e inattuale l’eredità della grande filosofia contemporanea europea

Massimo Iiritano

L’ultima volta che l’ho incontrato, eravamo ad Ascona, in uno degli ultimi colloqui di Eranos, di cui era graditissimo e acclamatissimo ospite. Affascinante e profonda, al tempo stesso, la sua lezione. Nulla di assimilabile alla vulgata semplicistica del pensiero debole e della sua religione. In Credere di credere, non a caso, si parte da una citazione di Dostoevskij: la fede diviene una delle possibilità esistenziali nell’orizzonte tragico del relativismo e del soggettivismo contemporaneo.

E Vattimo ci fa capire il rischio di una fede che voglia, in questo contesto, presentarsi ancora come “forte”: ostentare nella “volontà di potenza” e di dominio una forza sostanzialmente effimera, “incredibile”. Dinanzi a questa, si erge la consapevolezza drammatica, profondamente kierkegaardiana, di una fede come possibilità, come scelta, fondata sulla stessa incertezza del suo proprio fondamento: “credere di credere”, appunto. 

Qui, su questo terreno, Vattimo incontrava Quinzio e segnava, ancora una volta, il cammino di una filosofia che in lui ha saputo mostrarsi ancora in tutta la tragica potenza della sentenza hegeliana: “Il proprio tempo appreso col pensiero”.

Foto di Riccardo Squillantini / LaPresse


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