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Scenari

Esg più credibili se il revisore fosse la società civile

La recente direttiva Ue punta a coinvolgere più aziende nel processo verso la sostenibilità diffusa attraverso nuovi obblighi di rendicontazione. Difficile se però a farla saranno solo le big della revisione. Le stesse che, talvolta, in passato, hanno avallato processi produttivi e scelte aziendali non certo responsabili. Se invece le aziende aprissero questo percorso alle associazioni, anziché considerarle stakeholder fra tanti, le cose potrebbero cambiare

di Giulia Mocellini

La rendicontazione Esg costituisce, in teoria, lo step divulgativo – e finale – di quanto attuato dall’impresa in favore dei suoi stakeholder in un preciso arco temporale, nonché delle modalità da essa adottate per generare valore. In tal proposito, la Corporate Sustainability Reporting Directive – Csrd, emanata dal legislatore europeo nel dicembre 2022 e il cui iter è entrato nel vivo a fine luglio, non solo amplia il numero di soggetti obbligati a pubblicare annualmente la dichiarazione non finanziaria, ma permette anche il superamento delle lacune evidenziate dagli stakeholder nei report redatti ai sensi della Non Financial Reporting DirectiveNfrd, ormai risalente al 2014.

Tra le varie innovazioni, che mirano a colmare il “vuoto di responsabilità” tra impresa e società lamentato a Bruxelles, appare significativa l’introduzione dell’obbligo di asseverazione indipendente sui contenuti dell’informativa Esg.

A differenza del passato, essa verrà svolta esclusivamente da revisori legali o da società specializzate nei servizi di revisione, su tutto il territorio comunitario. Questo obbligo di assurance, ossia di garanzia, risulta interessante per due ragioni: innanzitutto, si avverte l’intenzione dell’Unione di migliorare la trasparenza e la qualità della rendicontazione di sostenibilità. Infatti, attraverso una sorta di nudge, di spinta lieve, verso gli operatori economici, che vengono sottoposti a un controllo super partes, i regolatorieuropei si aspettano una riduzione dell’asimmetria informativa fra aziende e cittadini.

Inoltre, l’onere di sottoporre a verifica il rendiconto Esg impone che le organizzazioni imprenditoriali, anche quelle di piccole e medie dimensioni, prendano consapevolezza dell’istituzionalità delle informazioni di carattere non finanziario, troppo spesso considerate “contenuti di serie B” rispetto alle misurazioni economico-contabili del bilancio d’esercizio.

A ogni modo, l’assurance Esg non è stata un fenomeno del tutto assente negli anni: in Italia, ad esempio, questa pratica è stata imposta a tutti gli enti soggetti al D. Lgs. 254/2016, ovvero il risultato del recepimento della Nfrd da parte del legislatore nazionale. Ciononostante, i bilanci di sostenibilità analizzati nei Research Report redatti dall’Alliance for Corporate Transparency nel biennio 2019-2020, inclusi quelli revisionati, sono risultati per lo più vaghi nel linguaggio adottato, privi di indici quantitativi adeguati e carenti di informazioni facilmente tracciabili dal lettore.

Parallelamente però, la letteratura accademica ha più volte sottolineato l’inconsistenza dell’assurance in materia di sostenibilità. Secondo gli studiosi, il primario limite all’imparzialità delle verifiche risiede nella relazione commerciale che sussiste tra auditor e impresa, la quale può indurre il professionista ad attuare comportamenti opportunistici per garantirsi incarichi futuri presso lo stesso cliente. In aggiunta, il rapporto esclusivo tra revisore e figure apicali, l’applicazione di metodologie consolidate nella revisione contabile e la standardizzazione delle opinion sono considerate alcune delle ragioni per cui l’asseverazione Esg è, a oggi, imperfetta.

Al di là dei limiti ontologici e approfondendo la struttura del mercato della revisione e della consulenza manageriale in ambito Esg, contraddistinta dalla presenza dei due potenti “oligopoli” delle Big 4, ossia Deloitte, PricewaterhouseCoopers, Ernest & Young e Kpmg, e delle Big 3, McKinsey, Boston Consulting Group e Bain&Company, si pone allora un’altra preoccupazione. Com’è possibile che le stesse società che, storicamente, hanno fornito onerose consulenze per migliorare le prestazioni economiche delle multinazionali, anche a discapito della società e dell’ambiente, oggi siano le stesse che guidano e certificano la transizione alla sostenibilità dell’economia globale? Come sostenuto da Mariana Mazzucato e Rosie Collington nel recente saggio The Big Con, è plausibile che il fenomeno Esg non sia altro che un “gigantesco placebo sociale” valido finché tutti i settori – pubblici e privati – non saranno seriamente intenzionati a effettuare un concreto mutamento di paradigma economico, vale a dire sviluppando un proprio know-how senza il supporto di terzi o immaginando un nuovo modello di supporto, per esempio agendo a più stretto contatto con le organizzazioni della società civile.

Queste ultime, infatti, potrebbero proporsi non solo come uno dei tanti stakeholder spesso posizionati ai margini dei core business e da compensare con redistribuzioni filantropiche, ma anche come soggetti in grado di verificare la rilevanza delle metriche che sostanziano la tassonomia Esg, agendo fattivamente all’interno delle catene del valore.

La foto di apertura è di Mark König da Unsplash


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