Giornata nazionale

Giangi Milesi:  «Il Parkinson è un semaforo rosso che rimane tale anche quando scatta il verde»

Quella capacità innata che necessita per curarsi delle fragilità Giangi Milesi l’ha sempre avuta, quindi non c’è mai stato alcun dubbio rispetto al fatto che sarebbe stato un ottimo captano alla guida della Confederazione Parkinson Italia. Essere, però, stato eletto presidente prima ancora di avere diagnosticato il Parkinson, può essere letto solo come segno del destino e, in questo caso, le parole sono assolutamente superflue

di Gilda Sciortino

Basta riflettere sul fatto che conta almeno 50 sintomi, per rendersi conto che il Parkinson è una malattia veramente complessa. Non è un caso che la campagna di awareness della Confederazione Parkinson Italia finisce con un payoff che è “Oltre il tremore. La malattia che è 100 patologie”.

«Basta, però, un tremore del braccio ed ecco che te lo diagnosticano velocemente», spiega Giangi Milesi, presidente della Confederazione Parkinson Italia e vicepresidente di Pubblicità Progresso, «e questo è un problema dettato dal fatto che c’è una generale ignoranza del personale sanitario rispetto a questa malattia, per cui non sempre la riconoscono. Eppure è una diagnosi relativamente semplice. Non necessariamente bisogna arrivare a un esame sofisticato, lo può riconoscere da un piccolo movimento delle mani, del passo anche un bravo cardiologo, un medico attento al quale viene richiesto solamente di guardare per capire».

La sensibilità di Milesi rispetto a questo tema è sicuramente data dalla sua innata predisposizione all’ascolto che lo ha portato a un impegno nel mondo non profit da oltre 30 anni, ma anche perché il Parkinson lo sta combattendo dal 2016, cioè da quando gli è stata diagnosticata la malattia.

In che modo ha scoperto il suo Parkinson?

Si è manifestato con una depressione, condizione che mi conosce sa bene quanto non mi appartenga. L’ho scoperta grazie a una psicologa molto brava che mi ha detto: “Lei ha compiuto dei passi da gigante con me, ha fatto tutto quello che le ho chiesto di fare, ha lavorato molto bene su se stesso, ma a questo punto la mia scienza si ferma e bisogna cercare altrove”. Una volta scoperta la malattia è stato facile trovare la risposta, anche perché c’è un solo farmaco, la Levodopa, precursore della dopamina, nella quale viene convertito una volta entrato in contatto con i neuroni. Neuroni che tutti perdiamo, però la malattia di Parkinson te li fa perdere in misura maggiore: circa il 60 per cento, quando viene diagnosticata. È una malattia destinata ad esplodere, così come tutte le malattie neurologiche, ma prenderà il comando e la nuova pandemia sarà proprio quella di Parkinson.

Questo lo afferma anche in base ai numeri?

In Italia oggi ci sono più di 300mila persone con Parkinson e a queste vanno aggiunte tutte quelle che si nascondono. Quelle consapevoli e quelle che non lo sono perché la malattia, che fino a un po’ di anni fa era la malattia dei 65 anni, oggi sta diventando anche dei 40enni. Dei più giovani, appunto.

E questo cosa vuole dire concretamente?

Vuol dire che abbiamo a che fare con un Parkinson più aggressivo. Vuol dire che ci sono persone che hanno paura di perdere il posto di lavoro o molto altro, per cui trovano come risposta questo tipo di comportamento che li isola sempre di più. Ovviamente le conseguenze sono dannosissime per la salute perché sfuggono a cure personalizzate che potrebbero rallentare lo sviluppo di una malattia che non si può guarire, ma che si può stabilizzare attraverso questa cura farmacologica. Ovviamente serve una buona qualità della vita, da sviluppare attraverso il movimento, la dieta, insomma quelle cose che sappiamo sono essenziali per una vita sana. Con i trattamenti oggi si può vivere a lungo, non ci sono dubbi.

Come spiegherebbe il Parkinson a chi non lo conosce?

È come se avessi una persona dentro di me che, quando è scattato il semaforo verde, ti attacca e fa accendere il semaforo rosso. Mentre la mente è pronta a ingranare la quarta e partire, le gambe si bloccano e rimani immobile. Trovi le forze per riprovarci ed ecco che nuovamente non riesci a fare un passo, un movimento. Ma potrei fare decine di esempi di questo tipo.

Nonostante non si tratti di una di quelle malattie che fanno paura in quanto contagiose, infettive, rimane lo stigma rispetto al Parkinson.

La recente mostra fotografica “parlante” con le foto di Giovanni Diffidenti e le voci di Lella Costa e Claudio Bisio, che abbiamo intitolato “Non chiamatemi morbo”, voleva lanciare proprio questo messaggio perché lo stigma è uno dei maggiori ostacoli alla malattia. Dobbiamo smettere di chiamarla “morbo” perché già è una malattia difficile da combattere, se poi si associa all’idea di una pestilenza diventa un’impresa titanica. Se, per esempio, al supermercato la cassiera non avesse più paura di dire che ha il Parkinson, la sua lentezza non irriterebbe i clienti, sviluppando un’empatia che porterebbe benefici a tutti.

Quanto la malattia influisce sulle famiglie?

 I familiari vivono quotidianamente ora dopo ora le nostre sofferenze, come se avessero il Parkinson anche loro, quindi è importante fare un lavoro che li tenga in considerazione. Tante, infatti, le forme di depressione che colpiscono tutti. C’è in atto un tavolo che sta lavorando per ottenere dalla politica una legge rivolta ai caregiver, riconoscendo diritti a tutte queste persone che non lo fanno per lavoro ma per obbligo morale perché sono mariti, mogli, figli, ma anche amici. Un atto impotante, fondamentale anche perchè costituirebbe una forma di risparmio per lo Stato. Proprio oggi, in occasione della “Giornata nazionale del Parkinson”, abbiamo presentato i risultati di una ricerca sui danni che queste persone subiscono arrivando sino al burnout. Una legge che aiuterebbe veramente tutti.

Qual è, dunque, la direzione da prendere? Le associazioni hanno la forza di dare risposte?

Le singole associazioni hanno la forza di dare risposte solo limitatamente ai loro territori, ma sempre in funzione della proprie capacità organizzative. Ovviamente, dipende da quanto grandi e strutturate sono, se possono o meno dare sostegno. Già, però, è tanto se riescono a evitare che la persona con Parkinson si nasconda, scappi, si rifugi in un angolino. Per evitare questa situazione di isolamento, è necessario offrire attività fisiche, dare modo di andare in bicicletta, in piscina, fare tennis, organizzare passeggiate in montagna. Servizi che migliorano e mantengono lo stato di benessere dei pazienti. Con l’attuale presidente dell’Accademia Limp-Dismov, il professor Michele Tinazzi, molto specializzato in questo campo, stiamo cercando di ottenere un cambiamento di atteggiamento da parte dei neurologi che oggi hanno poco tempo per dedicarsi ai pazienti. Mediamente siamo nell’ordine di 40 minuti all’anno, praticamente due visite di 20 minuti l’una per una malattia che, alla base, ha bisogno dell’ascolto e dell’empatia. Va anche detto che il neurologo da solo non basta perché il Parkinson è una malattia che necessita di psicologi, medici nutrizionisti, fisioterapisti, terapisti occupazionali. Una visione globale che necessita di reale attenzione nei confronti delle persone, qualunque sia la loro fragilità. Purtroppo siamo ancora molto lontani da tutto questo.

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.