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Gli influencer? Non servono

Dopo lo scivolone di Chiara Ferragni e Balocco sul pandoro pink, continua il dibattito sul ruolo di influencer e testimonial nella raccolta fondi. Il non profit non ha bisogno di influencer, dice l'esperto Luca Palmas, perché deve fuggire come la peste le relazioni frettolose

di Luca Palmas*

Sull’utilizzo degli influencer all’interno della vita delle organizzazioni non profit, sono molto drastico: non servono. Questa è chiaramente una provocazione, ma suffragata da voci rilevanti: ad esempio Seth Godin, guru mondiale del marketing, afferma che «il futuro degli influencer appartiene già al passato. Perché nella maggior parte dei casi coloro che vengono definiti influencer non lo sono affatto. Piuttosto sono hacker egoriferiti legati alle pubbliche relazioni e per giunta spesso scarsamente remunerati. D’altronde raccontarsi sui social media è una corsa che non porta alcun vantaggio, perché nel lungo periodo non genera né attenzione e né fiducia».

Possiamo, per semplificare, definire l’influencer come il “testimonial 2.0”, dove per testimonial la Treccani propone la definizione «messaggio pubblicitario caratterizzato dalla presenza di un personaggio noto che si fa garante verso il pubblico della qualità del prodotto reclamizzato» e segnatamente «il personaggio stesso, per lo più un attore, un’attrice, una persona nota o comunque di successo, ma anche un personaggio di fantasia, di un disegno animato, che, soprattutto in spot televisivi, fa la pubblicità del prodotto».

Il futuro degli influencer appartiene già al passato. Perché nella maggior parte dei casi coloro che vengono definiti influencer non lo sono affatto.

Seth Godin

Potenzialmente differente è il discorso per l’influencer che, sempre da Treccani, viene definito come «personaggio di successo, popolare nei social network e in generale molto seguìto dai media, che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico». 

Con la differenza che se per i primi l’essere famosi necessita di una patente esterna assegnata e riconosciuta da pubblico e media, perché per essere famoso qualcuno deve considerarti tale, per i secondi la notorietà deriva principalmente dal rapporto diretto con il pubblico al quale dimostra le sue doti in un settore o per un argomento ben definito sul quale è in grado di applicare la sua influenza.

L’influencer è quindi molto più vicino ai suoi followers e interagisce con questi condividendo aspetti importanti della propria vita, “sotto gli occhi di tutti”, con modalità confidenziali che sgretolano la propria privacy e magari anche quella dei propri figli, ponendosi come un amico. Questo aspetto di vicinanza amicale (che in definitiva sfrutta un legame di fiducia) condiziona le scelte e le azioni del pubblico per ottenere un ritorno commerciale basato su like e sponsorizzazioni. 


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Il “lavoro” di un influencer è necessariamente finalizzato a creare e pubblicare contenuti per analizzarli e individuare i risultati che producono maggiormente danaro. Per sintetizzare, l’influencer marketing si basa quindi sul principio del “consiglio a pagamento”, che ha l’obiettivo di far nascere nel seguace il desiderio di imitazione e di guadagnare su questa imitazione.ù

La tesi iniziale, esposta in maniera più dettagliata, potrebbe allora essere: non serve a nulla agganciare un nome famoso a un’organizzazione non profit per sfruttarne la popolarità col fine di “arrivare” al suo pubblico e questo per almeno tre motivi: uno logico, uno etico e uno educativo.

Non serve a nulla agganciare un nome famoso a un’organizzazione non profit per sfruttarne la popolarità col fine di “arrivare” al suo pubblico e questo per almeno tre motivi: uno logico, uno etico e uno educativo

Luca Palmas, fundraiser

Quello logico: perché un cantante famoso dovrebbe dirmi cosa fare o come comportarmi per un argomento (le adozioni a distanza ad esempio) completamente estraneo alla sua attività? Con quale riscontrabile credibilità? Qual è il nesso di causalità tra la sua eventuale competenza nel suo lavoro e la capacità di suggerire qualcosa di utile ed efficace per la salvaguardia dell’ambiente? Un bravissimo batterista potrà darmi dei fantastici consigli su come suonare la batteria, ma sui problemi nel Corno d’Africa? Forse, ma forse vale sia come forse sì, sia come forse no. Per me l’idea dell’ipse dixit, ossia dell’autorità indiscussa, non ha mai funzionato. Ma una cosa è ancorarla a Pitagora e Aristotele come supreme autorità nella filosofia, altra è collegarla a Fedez o chi per lui nella scelta dell’organizzazione a cui donare, basando la nostra scelta sull’autorevolezza di una persona famosa, valutando come assolutamente e aprioristicamente degne di fiducia le sue opinioni e scelte.

Il motivo etico: perché un’organizzazione non profit dovrebbe usare la notorietà di un influencer e i suoi numeri per proporsi al suo vasto pubblico tramite l’inganno di fondo del “consiglio a pagamento o quantomeno interessato”, magari slegato da valori comuni? Se ad esempio un trapper con milioni di seguaci veicola messaggi offensivi, contro le donne e a favore delle droghe, si ha un vantaggio ad arrivare al suo vasto pubblico? E se invece setaccio il substrato valoriale del “mio influencer”, su quale base lo valuto se non su quello della vicinanza alle mie azioni? È un po’ come tornare a sparare nel mucchio della pubblicità generalista, con l’aggravante di voler arrivare a tante persone non vicine alle nostre cause, in maniera leggermente fraudolenta, per trovare “subito” quei pochi che invece forse potrebbero idealmente supportarci. È ovvio che si debba valutare non solo l’aspetto quantitativo, ma anche e soprattutto quello qualitativo.

Il motivo comportamentale deriva dalla complessità del nostro rapporto con le migliaia di suggestioni che ci travolgono e con le scelte che ne derivano. Ovvero, colpiti dalla valanga di indicazioni che riceviamo, deleghiamo per pigrizia, poco tempo, scarsa voglia a una persona degna della nostra fiducia (ma sulla base di cosa, se non di rapporti amical – interessati) le decisioni che dovremmo prendere noi, ad esempio a chi donare e perché. È il famoso comportamento noto come “me l’ha detto mio cugino” reso virtuale. Con questo atteggiamento, non solo deresponsabilizziamo la nostra scelta, ma la scarichiamo di significati morali semplificandola e riducendola, volta per volta, a una moda, a un’emulazione e forse anche ad una operazione opaca, se non addirittura sanzionata dalla legge come nell’ultimo caso della Ferragni e del “suo” pandoro.

A questi tre motivi di fondo si può aggiungere la labilità di un legame che dura il tempo di un video e tre post, che non sfocia in una continuità del rapporto e che produce – come per i beni commerciali – relazioni frettolose e meno accurate, mentre il non profit ha bisogno di una comunicazione ricca di contenuti di valore che eviti come la peste il rischio di superficialità e di depauperamento di significati profondi. Quali sono le basi della scelta? Quali i fondamenti dell’adesione a una causa? Ci vengono comunicati?

Una sfida per il non profit è capire come ispirare alcune selezionate figure, che non siano necessariamente un esempio, ma che fungano da esempio. Cominciando dagli sportivi

Luca Palmas

In questo tentativo di “socialità integrata”, le relazioni mutano vertiginosamente e se ognuno ha maggiori possibilità di attivare e arricchire i legami sociali, ha allo stesso tempo maggiori responsabilità nelle sue scelte. In definitiva, una delle nuove sfide per il non profit è capire come usare il potere di ispirare, in chiave “educativa”, alcune selezionate figure che non siano necessariamente un esempio, ma che fungano da esempio. In questa scelta, a mio avviso, il cluster degli sportivi è il target decisamente più appropriato.

Aggiornamento della redazione: nel pomeriggio del 18 dicembre, Chiara Ferragni si è scusata per «l’errore di comunicazione» commesso e ha dichiarato che farà una donazione da 1 milione di euro all’ospedale Regina Margherita di Torino. Farà ricorso contro la decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e se la multa dovesse essere inferiore a quella stabilita, anche l’importo di quella differenza andrà in beneficenza. Un tentativo di influenzare le decisioni dell’Autorità? Di certo il fatto che riconosca di non sapere a cosa serviranno questi soldi all’ospedale, precisando che si informerà in futuro dice della poca credibilità della toppa che rischia di essere peggiore del buco.

*Luca Palmas, fundraiser, referente PCA – Più Che Atleti presso Fundraiserperpassione. Foto di George Pagan III su Unsplash


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