Idee Territori

Aree interne, lo sviluppo non è una questione di soldi

«Finché parleremo di rafforzamento delle strutture tecniche locali senza mettere le mani sulle metodologie di selezione del personale e sulla costruzione di un sistema di coprogettazione delle politiche pubbliche davvero efficace, probabilmente continueremo a perpetrare sempre gli stessi errori». L'intervento della ricercatrice dell'università Bicocca di Milano

di Mariella Stella

Nell’affrontare il tema delle aree interne, tornato molto di attualità in questi giorni non vorrei che si facesse un errore: trattarlo ancora una volta dal punto di vista sbagliato: quello dei fondi. In una intervista presente nel libro L’Italia lontana: una politica per le aree interne (2022), Medea Ferrigno, amministratrice di un piccolo comune siciliano, chiedeva a Fabrizio Barca perché in una operazione così rivoluzionaria come quella della Strategia Aree Interne (Snai), di cui Barca è stato il promotore, non si fosse pensato ad attivare un accompagnamento e un supporto tecnico ai piccoli comuni sia nella fase di elaborazione che in fase di attuazione della Strategia. La risposta di Barca metteva in evidenza due punti deboli dell’operazione, che pure era stata in grado di introdurre approcci nuovi ed efficaci: uno inerente al rafforzamento delle strutture tecniche di ogni area progetto e l’altro relativo al rafforzamento della struttura nazionale di accompagnamento delle strutture tecniche locali, a cui si sarebbe dovuta dedicare senza dubbio più attenzione.  Barca rilevava in realtà tra gli ostacoli più significativi, «una certa ritrosia del centro politico e amministrativo ad aderire a forme nuove di politica pubblica come quelle attuate dalla Strategia (un approccio placed-based che coinvolgeva concretamente cittadini e attori locali nel processo di definizione delle politiche territoriali) e una scarsa fiducia in tali processi da parte della classe dirigente centrale e locale». Del resto, il rafforzamento della struttura tecnica fu indicato dai promotori della Strategia come elemento di intervento nella restituzione dell’esperienza, ma non si diede seguito alla costruzione di quel processo successivo, per mancanza di fiducia in quel tipo di processi da parte del Governo centrale e per la visione a breve termine che, purtroppo, spesso caratterizza i decisori su queste tematiche.  Barca parlava di un rafforzamento delle compagini tecniche dei Comuni inseriti nella strategia ma, in realtà, il bisogno è allargabile a quella moltitudine di Comuni italiani che faticano a raggiungere i 5mila abitanti e che possiedono al loro interno strutture amministrative terribilmente fragili.

Dopo 20 anni di lavoro nella pubblica Amministrazione mi chiedo se sia davvero e solo un tema della struttura amministrativa e non, piuttosto, un tema di competenze a approcci alla programmazione e gestione del bene comune. In fondo finché parleremo di rafforzamento delle strutture tecniche locali senza mettere le mani sulle metodologie di selezione del personale e sulla costruzione di un sistema di coprogettazione delle politiche pubbliche davvero efficace, probabilmente continueremo a perpetrare sempre gli stessi errori.

Marianella Sclavi in uno dei suoi interventi sull’ascolto attivo sosteneva che Il facilitatore sta allo Stato postmoderno come il burocrate sta allo Stato moderno, riconoscendo così un nuovo ruolo fondamentale di chi si occupa di politiche pubbliche, sia a livello politico che amministrativo, che è quello di costruire ponti e non di eseguire ordini, ponti con un universo di protagonisti della cosa pubblica, che ha bisogno di trasformare in alleati, di ascoltare, di abilitare, e che, rispetto a questo nuovo ruolo, manca di molte fondamentali competenze.

Di tale dotazione la Pubblica Amministrazione è sprovvista, ma probabilmente tale assenza pesa ancor di più negli Enti di prossimità, in particolare in quelle aree del Paese che vivono lo scotto dell’isolamento fisico e istituzionale, oggi più che mai, visto che nel Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne  2021-2027 (P-SNAI), è possibile leggere all’obiettivo 4: “Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile”, una sorta di eutanasia assistita, in cui il Governo nazionale svolge il ruolo di accompagnamento al percorso di cronicizzato declino e invecchiamento.

Ovviamente il nuovo approccio ha determinato l’insorgere di una vera e propria rivolta nazionale da parte di chi nelle aree interne sta provando concretamente a cambiare le cose, anche se tale approccio contenuto nel Psnai restituisce un’idea purtroppo consolidata in una grande fetta di popolazione e di classe politica e dirigente circa il valore delle aree interne in Italia. 

Da anni lavoro nelle aree interne e mi occupo di sviluppare progetti di sviluppo territoriale con l’organizzazione del Terzo settore di cui faccio parte, e nel corso del mio PhD in New Public Administration presso l’Università Bicocca di Milano ho avviato un percorso di formazione sperimentale per due gruppi di dipendenti comunali di due piccoli Comuni di circa 2.300 e 3.700 abitanti e in corso di formazione sto imparando  molte cose interessanti rispetto a come innovare le aree interne a partire dalla PA.

In questi anni si è parlato molto della capacitazione amministrativa di questi Comuni, della condivisione dei servizi e dell’unione di Comuni come soluzione per rendere più efficienti i servizi locali e migliorare il benessere della popolazione, si è evidenziato il ruolo della digitalizzazione dei servizi per l’efficienza e l’efficacia delle procedure amministrative. Se, infatti, è innegabile che nelle aree interne ci sia un tema di carenza di servizi essenziali fondamentali, che ci siano spesso limiti importanti relativamente alla digitalizzazione e alla connettività e che ci sia una carenza di fondi da destinare ai servizi essenziali, è altrettanto evidente che ci sia un problema culturale importante da affrontare. Nelle diverse esperienze sviluppate nelle aree interne ho la sensazione che manchi un’alleanza fondamentale in questi posti, senza la quale non potranno esserci margini di futuro: quella con il Terzo settore.

Al di là delle aspettative iniziali e della disillusione successiva in moltissimi casi, i fondi hanno costruito cattedrali nel deserto

Al di là delle aspettative iniziali e della disillusione successiva, ancora una volta, in moltissimi casi, i fondi hanno costruito cattedrali nel deserto, spazi nuovi e bellissimi privi di gestione e di visione, strade non percorse da auto e piazze vuote. Non basta costruire o ristrutturare luoghi se mancano le visioni, se manca la capacità di abitarli. E l’unica strada possibile per farlo è considerare il Terzo settore un alleato fondamentale per costruire progettualità condivise.

Prima di ogni limite economico occorre che questi territori prendano coscienza di alcuni limiti e rischi fondamentali che li attraversano. Non si tratta dei limiti geografici e infrastrutturali di cui si parla spesso a proposito di questi territori, ritengo che si tratti piuttosto di visioni corte e approcci culturali rischiosi.  

Il tema è di empowerment delle risorse umane delle Amministrazioni, da quelle politiche  a quelle tecniche, che spesso, purtroppo,  ripropongono dinamiche vecchie di chiusura all’esterno, di gestione clientelare delle collaborazioni e di paura di perdere il controllo dei processi. È un empowerment che deve trasferire competenze nella gestione delle relazioni con gli stakeholders, nella mappatura delle risorse e degli attori locali, nella capacità di coinvolgerli, di coprogrammare e coprogettare con loro e di facilitare i processi di coinvolgimento. In un tempo in cui l’intelligenza artificiale entra con forza anche nel contesto della burocrazia e della pubblica amministrazione è la relazione, l’umanità che torna centrale come valore fondamentale di cura e tutela del bene comune.

Non è più tempo di temere l’ingresso del Terzo settore nella cosa pubblica, è il momento di formare il pubblico all’alleanza con il Terzo settore per tutelare tale bene.

Esistono strumenti amministrativi importantissimi, esistono amministrazioni che su questo stanno costruendo i loro servizi pubblici, che non possono e non devono essere più raccontati come best practices, devono diventare procedure amministrative ordinarie: i regolamenti per la gestione dei beni comuni, i patti di collaborazione, i processi di coprogrammazione e coprogettazione disciplinati dal Codice del Terzo settore, l’applicazione dell’art. 6 del nuovo Codice degli appalti, sono tutti dispositivi normativi che rendono possibile e necessario questo nuovo approccio partecipato. Ne parla Asvis nel suo Rapporto 2024-2025 in cui mappa le buone pratiche di collaborazione tra pubblico e privato sui temi fondamentali dell’Agenda 2030 con un Focus specifico sulle aree interne. Tali buone pratiche mostrano come sia possibile attuare questo tipo di alleanza senza che nessuno degli attori coinvolti perda valore o rilevanza, ma mostrano anche che l’alleanza con il Terzo settore rappresenta una condizione preliminare e generativa. 

Ancora una volta, il tema è culturale  e non burocratico, perciò occorre urgentemente lavorare su nuovi percorsi formativi per i rappresentanti istituzionali e per i dipendenti comunali delle aree interne, commisurati alle sfide che li attendono. Occorre avviare un processo di alfabetizzazione vero e proprio in tal senso e un reskilling profondo, per costruire relazioni nuove con gli stakeholders e per avviare processi di ascolto attivo e coinvolgimento partecipato su temi fondamentali dell’Amministrazione Pubblica, dando ad ogni attore coinvolto la sua responsabilità e il suo ruolo. Quindi, come possiamo liberare tutto il potenziale della Pubblica Amministrazione “interna”? Ripensando la formazione del personale, rendendola meno accademica e più aperta, partecipativa e pratica, semplificando il linguaggio, sottolineando l’importanza dei processi e utilizzando nuovi strumenti per applicare metodologie innovative nella pratica, introducendo il design thinking e assicurando che ogni nuova competenza sia collegata ad applicazioni nella vita reale.

Foto di nodichotomy su Unsplash

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