Idee Modelli
Dalle leadership opportunistiche alle leadership partecipate: il lavoro è responsabilità, non mera esecuzione
Nelle organizzazioni più evolute il ruolo del capo non si esercita attraverso un intervento costante e invasivo (tipico del micro-management orientato al controllo), ma nella gestione delle situazioni in cui l’autonomia dei delegati non è sufficiente alla soluzione dei problemi. Il leader è il decisore di ultima istanza e colui che si prende la responsabilità quando le cose vanno male

Nel campo del management, nella letteratura e nelle sue applicazioni pratiche, si possono distinguere almeno due modelli di leadership, diversi per impostazione e implicazioni. Nel primo modello, il lavoro è concepito come un processo aperto, fondato sulla cooperazione tra soggetti in grado di osservare, comprendere i contesti, affrontare i problemi e proporre soluzioni. L’organizzazione assume la forma di un sistema organico, in continua trasformazione, in cui le regole sono il risultato di un’elaborazione che coinvolge i diversi livelli, nella pratica quotidiana e nel confronto. Il leader si riconosce nella capacità di orientare, incarnare e custodire i valori comuni, e assumersi la responsabilità delle decisioni nei momenti di difficoltà. Il ruolo del capo non si esercita attraverso un intervento costante e invasivo (tipico del micro-management orientato al controllo), ma nella gestione delle situazioni in cui l’autonomia dei delegati non è sufficiente alla soluzione dei problemi. Il leader è il decisore di ultima istanza e colui che si prende la responsabilità quando le cose vanno male. La sua retribuzione è legata al rischio derivante dalla responsabilità, più che a una presunta superiorità personale di competenza o di una (supposta) più chiara capacità di distinzione delle scelte migliori. Questo stile si osserva in contesti dove il lavoro è anche luogo di negoziazione delle regole: nel Terzo settore, nelle realtà del sistema cooperativo più vicine allo spirito delle origini, in imprese di piccole e medie dimensioni con forte radicamento territoriale, dove l’imprenditore si sente operaio tra pari.
Nel secondo modello, il lavoro è inteso come esecuzione. I processi vengono definiti a monte, la responsabilità è distribuita in modo non sempre trasparente, le decisioni strategiche sono separate dall’attività operativa. Il contributo delle persone è previsto entro confini precisi, senza spazi né formali né effettivi per la partecipazione. In caso di criticità, il sistema di governance scarica la responsabilità sugli anelli più deboli della catena, anziché interrogarsi sulle scelte a monte. Lo spirito dominante stabilisce che se le cose non vanno, è perché le indicazioni dall’alto non sono state applicate correttamente. In questo schema, la leadership ha come principale obiettivo quello di perpetuare se stessa, garantire l’aderenza ai compiti assegnati, senza rimettere in discussione le condizioni che li hanno generati.
All’interno di questo secondo modello si colloca ciò che viene spesso definito pop management: una forma di gestione che ricorre a linguaggi e strumenti apparentemente partecipativi – gamification, badge, narrazioni motivazionali, sistemi di premialità – ma che mantiene intatta la struttura verticale dei poteri decisionali. La partecipazione viene simulata, non praticata. Il lavoratore viene coinvolto sul piano simbolico, non su quello sostanziale. Non è sul salario, sul riconoscimento e la valorizzazione del contributo di ciascuno che si cerca l’impegno, ma su una motivazione fasulla imposta attraverso slogan, giochi e la competizione interna (per un badge o per la preferenza del capo). Le decisioni restano centralizzate, ma sono accompagnate da codici comunicativi che ne attenuano l’asimmetria, senza modificarla. Rendere piacevole la vita aziendale, avvicinare la comunicazione a stilemi pop, significa travestire e dissimulare una struttura decisionale verticale che invece si consolida, accompagnando con una spinta gentile il lavoratore ad obbedire a schemi consolidati.
Alla base di questo approccio vi è un’idea implicita secondo cui il lavoratore, se non opportunamente stimolato, non sarebbe disposto a contribuire in modo significativo, né in grado di dare risposte ad un contesto caotico. Ma questa ipotesi non nasce da un’osservazione empirica delle dinamiche lavorative, bensì da una concezione del potere retaggio di uno spirito del capitalismo di matrice novecentesca. Il dipendente viene immaginato come soggetto opportunista e indolente, perché chi esercita il potere lo fa per il proprio esclusivo interesse e pensa che il proprio codice di condotta sia lo stesso per tutti. E così costruisce dispositivi che confermano questa visione. Il pop management finisce per proteggere la posizione di chi decide, trasformando la subordinazione in consenso.

Esiste però un’alternativa concreta, seppure meno visibile nel dibattito pubblico e nella comunicazione aziendale. Alcune organizzazioni adottano modelli in cui il valore nasce direttamente dall’attività svolta, non dalla sua rappresentazione. In queste realtà, le soluzioni ai problemi non arrivano solo dai vertici, ma possono emergere da qualunque punto dell’organizzazione. Perché ciò sia possibile, è necessario che l’ambiente di lavoro riconosca il contributo, ne registri l’origine, e ne favorisca l’integrazione nel patrimonio collettivo. Non basta accogliere un’idea: occorre che essa venga attribuita correttamente e trasformata in prassi condivisa. Solo in queste condizioni si sviluppa un autentico processo di apprendimento organizzativo: un sistema in cui l’esperienza, l’osservazione e il miglioramento continuo sono parte integrante del funzionamento ordinario. Attraverso il riconoscimento, il ruolo della leadership consiste nel garantire che il sapere prodotto non venga disperso né appropriato, che l’innovazione non sia accentrata, che la responsabilità degli insuccessi non sia scaricata verso il basso ma gestita con coerenza. Quando il leader si appropria delle idee dei team (solo quelle buone, ovviamente), ecco che il team è scoraggiato dall’avere idee. Le opposizioni al principio di partecipazione e coinvolgimento in azienda, nascono spesso da leader opportunisti.
Foto: Pexels/fauxels
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.