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Il Terzo settore smetta di parlare da Terzo settore

L’impostazione massimalista di cui a volte il Terzo settore appare vittima nel modo in cui riproduce la sua cultura di riferimento poco aiuta ad affermare nuove modalità di comprendere e rappresentare quel che vogliamo trasformare

di Flaviano Zandonai

Risignificare è una modalità sempre più perseguita per fare cambiamento. L’individuazione di parole chiave, i contenuti e il tono del linguaggio, le semantiche di riferimento sono sempre più spesso al centro del confronto tra diverse visioni del mondo. Quel che si nota in questa fase è che spesso termini, contenuti e modalità espressive diventano contendibili tra diversi soggetti. Può succedere che una stessa parola, un determinato linguaggio, una rappresentazione sociale passi da un attore all’altro, a volte per sostenere posizioni contrapposte. La risignificazione, in questo caso, può non riguardare il contenuto ma piuttosto le caratteristiche di chi lo veicola. Un caso di attualità è rappresentato dal termine “woke” elaborato dalla controcultura afroamericana statunitense per significare il fatto di essere vigili e attivi e poi progressivamente appropriato dalle forme più avanzate, ed estrattive, dell’attivismo capitalista. Ma la lista potrebbe continuare perché ormai la frontiera della generazione del valore, del consenso pubblico e dell’autorealizzane di sé passa attraverso tutto ciò che è “social”.


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Il catalizzatore linguistico è così rilevante che forse sta trascendendo nell’autoreferenzialità. La ricerca di nuovi significati sfuma progressivamente lo sguardo sull’agire. Mentre dibattiamo cosa significhi generare impatto per impostare le nostre call to action rischiamo che le innovazioni di chi ci sta davvero provando ci passino sotto il naso. Mentre ci confrontiamo sul modo corretto per definire i bisogni e coloro che ne esprimono le istanze molte delle possibili soluzioni sfuggono dai radar del welfare. Mentre ci arrovelliamo sull’aggettivo che meglio qualifica la nostra società ci troviamo di fronte a “ribaltoni” sociali e politici belli e compiuti. Non è un dettaglio perché il fallimento delle riforme a base culturale che agiscono sul linguaggio spalancano le porte al loro contrario, ovvero ad approcci soluzionisti improntati su meccanismi di azione – reazione, con buona pace di apprendimenti e conoscenze elaborate da intelligenze collettive che alimentano processi di empowerment.

Visto che anche questo contributo rischia di avvitarsi in questo groviglio di elementi significanti, proviamo a dare un’impostazione un po’ più pragmatica al dibattito sul linguaggio, anche per non farlo deragliare verso un conflitto generalizzato, come peraltro sta avvenendo guardando a tematiche di cancel culture e identità di genere. Un’impostazione che potrebbe essere agita, a proposito di pragmatismo, dalle organizzazioni del terzo pilastro della società civile, giocando il loro solito ruolo mediano che in questo caso si colloca tra le nuove espressività culturali e le loro rappresentazioni da una parte ed elementi di codificazione politico amministrativa e di modellizzazione economica dall’altra.

  • Una prima modalità potrebbe consistere nel rendere più processuali le procedure che stanno monopolizzando i dispositivi partecipativi nella sfera pubblica: una sorta di “flow” al posto di scansioni burocratiche per favorire l’emergere di linguaggi naturali capaci di definire cosa è di interesse generale.
  • Una seconda frontiera riguarda la pop culture che rimane una grande fucina di innovazione linguistica e semantica dove ormai il capitalismo ha innestato i propri boccaporti di estrazione del valore; le forme organizzate della società civile potrebbero costituire un argine non tanto per esigenze di tutela ma soprattutto per promuovere un approccio dove il valore di questo capitale intangibile sia condiviso.
  • Una terza modalità consiste nel saper assorbire all’interno del linguaggio scientifico elementi di teorizzazione e modellizzazione che provengono dal basso; un necessario riconoscimento dei crediti nei confronti di buone pratiche che sostanziano paper e rapporti di ricerca orientati a sostenere trasformazioni socioambientali e il governo della conoscenza come bene comune.

Esercitare questo ruolo richiede un approccio capace di restituire le ambivalenze dei significati elaborati e trasmessi anche da parte dello stesso Terzo settore. L’impostazione massimalista di cui a volte quest’ultimo appare vittima nel modo in cui riproduce la sua cultura di riferimento poco aiuta ad affermare nuove modalità di comprendere e rappresentare quel che vogliamo trasformare. Se invece di ostinarsi a difendere i propri confini semantici il Terzo settore accettasse di partecipare a discorsi più ampi grazie ai quali capire quel che sta succedendo e soprattutto desiderare ciò che vogliamo avvenga forse più che rischiare di perdere l’identità potrebbe veicolare meglio la sua reale distintività.

Foto: George Becker/Pexels


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