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La burocrazia kafkiana che soffoca il Terzo settore sulla pelle dei lavoratori del sociale
La paradossale vicenda di una cooperativa creditrice dello Stato che a causa dei mancati pagamenti del debitore viene esclusa dai finanziamenti dalla pubblica amministrazione

Immaginiamo di essere in un paesino di provincia del Piemonte interno, meno di 5mila abitanti, con problemi di sopravvivenza legati al fenomeno dello spopolamento, invecchiamento ed emigrazione. Da otto mesi però c’è un segnale in controtendenza: una cooperativa sociale è alle prese con l’accoglienza di una umanità in fuga. Il personale segue con cura la quotidianità di 35 persone che sono alloggiate in case prese in affitto secondo il modello dei Sai (Servizio accoglienza integrazione), il virtuoso sistema di accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo del governo italiano. Ci sono famiglie venute dalla Siria, giovani pakistani in cerca di rifugio, bimbi nigeriani con le loro mamme al seguito. Gli operatori seguono alla lettera l’ottimo manuale dei percorsi personalizzati di accoglienza: consegna di kit di igiene e di effetti personali all’arrivo; accompagnamento negli uffici competenti per l’ottenimento di documenti necessari a vivere in Italia, come la residenza, la carta di identità, l’iscrizione all’Asl ed alle scuole; ogni mese si consegnano i famigerati pocket money (2,5 euro al giorno) per le spese personali e libere degli ospiti; ogni settimana vanno consegnati 35 euro per le spese di vitto che i beneficiari potranno usare a loro piacimento per acquistare viveri nei piccoli supermercati locali (di cui, nei piccoli comuni in cui vengono accolti, sono a tutti gli effetti i principali avventori). Ogni fine mese, i lavoratori dei Sai dovrebbero poter ricevere lo stipendio, ma già sanno che i ritardi, più o meno ordinari, con cui i Comuni, che sono gli enti gestori, avranno fondi dal governo, comporteranno ritardi a catena, a causa dei quali il fatidico “ventisette del mese” resta solo un timido miraggio, ed il bonifico del salario si sposta al mese successivo e, spesso, addirittura ai mesi ancora dopo. Ecco, in sostanza, cosa succede.
Dal primo giorno di accoglienza passano mesi e, per via di piccoli contenziosi legittimi, il perfezionamento del contratto non arriva. Ma gli ospiti si, loro ci sono ed arrivano puntuali, sono presenti in carne e ossa e sono già a carico di questa cooperativa, che potremmo chiamare con il nome di fantasia “Joseph K.”
Le bocche e le pance non conoscono i tempi della burocrazia e dei suoi legittimi intoppi, per cui le spese iniziano a girare sul pallottoliere di una cassa che di fatto non c’è: alla Joseph K. non arrivano fondi da nessun ente ma, intanto, la Joseph K. dovrà pure far viver le persone che ospita. Le banche, dal canto loro, fanno credito ai progetti Sai, ma solo a determinate condizioni. Le prime sono che vi sia un contratto stipulato tra la cooperativa ed il comune, e che il Durc (Documento unico di regolarità contributiva) sia in regola.
Passano i mesi, sette in totale, e la burocrazia ancora non competa il suo lento ed inesorabile corso. La Joseph K. ha ormai pagato più di 60mila euro di spese dalle proprie casse, le difficoltà sono tante e gli stipendi si diradano, uno ogni tre mesi circa… Arriva finalmente una prima forma di contrattazione provvisoria, ma il Responsabile del Procedimento del comune chiede di procrastinare l’emissione della fattura pur se relativa a servizi già svolti: dal governo, per il periodo considerato e già trascorso, non sono ancora arrivati i soldi ed una fattura consegnata in via elettronica che non venisse pagata entro trenta giorni sarebbe una nota di demerito nella carriera dell’incolpevole Rup (Responsabile unico del progetto).
Un giorno, finalmente arrivano i fondi ed anche la possibilità di stipulare il contratto, tutto ormai è pronto. C’è un però. Joseph k. deve ora presentare un Durc valido. Solo che, nel corso di quei sette mesi, la cooperativa ha potuto provvedere alle spese quotidiane ed a quattro mensilità di stipendi su sette, non ha potuto anticipare altro e gli f24, quella famosa formula alfanumerica in cui si nascondono i versamenti delle tasse, sono rimasti indietro. Il Durc, che all’inizio della storia era un documento valido, ora non lo è più. Ora Joseph K. non è più in regola, ora è debitrice anche verso lo stato di Irpef, Inail, Inps ed altro ancora.
Adesso, i fondi che attendeva per la copertura del suo servizio ci sono, sono nelle casse del Comune. Il Comune però, per poter pagare, chiede alla JK un Durc aggiornato e, a quel punto, l’Inps, interrogata per l’aggiornamento, dice che la posizione non è regolare, mancano dei versamenti all’appello.
Paradossalmente, quindi, la fattura fatta quando il Durc era valido e che, finalmente potrebbe essere pagata, non può più esserlo perchè il Durc non è più in regola.
Ed è qui che inizia la condizione kafkiana di ogni ente privato che attende fondi dallo Stato. Contro uno Stato che è in ritardo nei suoi confronti, l’ente privato deve dimostrare di essere puntuale nei confronti di quel suo stesso debitore. Se non lo è, la pena è semplice: senza Durc non si avrà né contratto né pagamento della fattura. Si prova a spiegare che quel pagamento servirebbe proprio a pagare tutto il pregresso, anche gli f24, ma il dirigente, pur profondamente empatico e comprensivo, spiega che nulla può fare. Nessun contratto e nessuna liquidazione senza Durc. Il Rup condivide l’ovvietà del sillogismo: “non avete il Durc perché non vi abbiamo pagato”, ma non ha nessuna possibilità di fare altrimenti. Ed anche la banca non può fare altrimenti: se per via del mancato Durc non firmate il contratto, non possiamo anticipare alcun importo su quel progetto di accoglienza.
Ed ecco che la responsabilità cade tutta sulla Joseph K.: andare in cava (come accadde al protagonista del romanzo di Kafka) e farsi ammazzare (il progetto), oppure creare ulteriori e creative forme di indebitamento e sopravvivere, restando in un circuito vizioso in cui altri progetti andranno perennemente in sofferenza ed altri operatori avranno ritardi negli stipendi mensili.
Questo dramma kafkiano, che ha anche i tratti di un novello paradosso da comma 22, va in scena in migliaia di Comuni ed enti pubblici ogni mese; per superarlo ci vogliono spalle forti e grande generosità negli operatori sociali e non solo (riguarda tanti settori della vita economica), e resta profondamente ingiusto.
È forse arrivato il momento che il caso Joseph K resti solo un grande romanzo del ‘900 e che le leggi che governano il rapporto tra enti del Terzo settore, enti privati ed enti pubblici, siano al più presto modificate, per essere basate sui dati di realtà del rapporto economico tra pubblico e privato e non su principi legalistici ideali in cui di fatto, sulla parte debole, si scarica la violenza di un cattivo pagatore che, come quello di cui si parla nel Vangelo, chiede costantemente clemenza per i debiti che ha, ma non accetta deroghe per i crediti che vanta.
Mentre l’Italia dei piccoli Comuni lotta per non estinguersi demograficamente, ci sono piccole esperienze di accoglienza diffusa che, per un meccanismo assolutamente cervellotico, basato su un principio sbilanciato di sfiducia dell’uno verso l’altro, rischiano di essere uccise senza che vi sia nessun colpevole d’omicidio, se non un “processo” che va avanti con regole inique.
Foto di Rocío Perera su Unsplash: l’immagine di Franz Kafka nel centro di Praga
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