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Stragi nel Mediterraneo

La grande finzione di distinguere fra profughi e migranti

Dopo l'ennesimo naufragio mortale di 41 persone che dalle coste del Nord Africa tentavano di arrivare in Italia la professoressa dell'università di Palermo mette sotto accusa la politica disumana degli Stati europei e il "Processo di Roma" promosso a luglio in pompa magna da Giorgia Meloni

di Alessandra Sciurba

Due immagini di fine luglio, se accostate, ci raccontano moltissimo di cosa sta accadendo nel nostro Mediterraneo, il mare di mezzo che Danilo Zolo ha descritto come «la riserva morale dell’Occidente, il bacino ecologico del suo umanesimo».

La prima è stata resa pubblica il 21 luglio, ed è quella di una mamma e di una bambina, stese vicine, le palme dei piedi arse dal sole, sulla sabbia di un deserto alla frontiera tra la Libia e la Tunisia. Vorresti dormissero, ma sono morte nella postura di un abbraccio appena sciolto, e pensi alle ultime parole che si saranno dette, cosa possa dire una madre a sua figlia quando capisce che non potrà salvarla. Oggi sappiamo che si chiamavano Fati e Marie, conosciamo la loro storia, sappiamo che c’è un padre, separato da loro da un viaggio terribile. Sappiamo che lui e Fati si erano innamorati in Libia, in un campo di detenzione, che avevano provato a scappare attraversando il mare, e che quattro volte la cosiddetta guardia costiera libica, con mezzi italiani e addestramento europeo, li aveva riportati indietro alla violenza. Sappiamo che alla fine avevano provato a raggiungere la Tunisia, sognando che Marie potesse finalmente mettere piede in una scuola, ma anche lì la frontiera si era abbattuta su di loro: erano stati catturati dalla polizia di Zarzis e abbandonati nel deserto con la loro piccola di soli 6 anni.

I responsabili della loro morte, come di quella di tante e tanti altri che non vedremo nemmeno, sono invece tutti nella seconda immagine che dobbiamo accostare a questa. E sono vivi, in piedi, eleganti, in un palazzo istituzionale di Roma: con aria solenne sono riuniti per partecipare alla Conferenza internazionale sullo sviluppo e la migrazione del 23 luglio. In mezzo a tanti altri capi di Stato, c’è il Presidente tunisino, quello che ha esautorato il Parlamento e cancellato la costituzione nata dal 2011, e che ha da poco inaugurato la sua politica di catture e respingimenti di massa nel deserto, sul modello già attuato da anni dall’Algeria, il cui leader politico, nella stessa foto, è poco distante. C’è poi il primo ministro libico (che in realtà rappresenta solo una parte dei poteri in lotta in quel paese, tanto che Haftar ha dichiarato illegale la sua presenza a Roma), ovvero l’autorità di uno Stato in cui l’Onu ha dichiarato a più riprese, seguito dalla Corte penale internazionale e dal Consiglio d’Europa, solo per citare i più autorevoli, che si consumano indicibili orrori in assoluto disprezzo della vita delle persone in migrazione. E c’è ovviamente la Presidente del consiglio italiano, che li ha voluti tutti lì e che però, effettivamente, non può essere accusata da sola di avere ideato e finanziato un sistema criminale di catture, torture, tratta, uccisioni, respingimenti, abbandoni, dando delega per la sua attuazione ai Paesi di transito delle migrazioni in modo da aggirare le norme del diritto internazionale e le Corti poste a loro tutela. Non le vanno dati troppi meriti: queste politiche sono pienamente sostenute dall’Unione europea, e hanno una storia ben più lunga e trasversale, che coinvolge tutti i partiti italiani che hanno avuto potere negli ultimi trent’anni. Solo, lei è più intelligente e temeraria di altri.

La prima immagine, Fati e Marie abbandonate a morire nel deserto dalle autorità dei Paesi che cercano di compiacere l’Italia e l’Europa, è quella che Giorgia Meloni, nella sua conferenza stampa a conclusione dell’incontro internazionale, cerca di tenere lontana, come non fosse esattamente la sostanza di quanto discusso in quel summit, come se quei corpi non fossero il non detto onnipresente, evidente, chiaro a tutti, di quell’incontro. Ma la storia da raccontare, almeno per il momento, deve essere un’altra.

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La premier parla a più riprese del “ruolo fondamentale che l’Italia può giocare nel Mediterraneo”, perché “siamo inevitabilmente un ponte tra Europa, Africa e Medio Oriente”, e illustra quello che ha definito il “processo di Roma”, da costruire su “interessi convergenti “di tutti i Paesi coinvolti, che adesso dovranno finalmente “lavorare insieme per affrontare e gestire le grandi crisi del nostro tempo”, a cominciare dalla “lotta alla migrazione illegale e alle reti dei trafficanti che sfruttano la disperazione umana destabilizzando i paesi in cui operano”. Di questi trafficanti, spiega, gli Stati delle due sponde sarebbero “vittime”, e il contrasto all’immigrazione illegale e la sconfitta di queste reti sarebbero “le precondizioni per aprire canali di immigrazione legale”. Un corto circuito logico, dal momento che senza canali di ingresso legali realmente sicuri e percorribili – non certo quelli delineati dal decreto-legge strumentalmente emanato dopo la strage di Cutro – il traffico di esseri umani resterà il solo mezzo con cui le persone in fuga proveranno a ritrovare un posto nel mondo. Ma, ci tiene a sottolineare la Presidente, è indubbio “il diritto di chi scappa da guerra e persecuzioni a mettersi in salvo”, tenendo sempre presente, cionondimeno, che “la migrazione è cosa diversa dai profughi. Sono due materie diverse, normate in maniera diversa”. Peccato che le persone però siano le stesse, oggi sempre più indistinguibili, proprio perché ridotte tutte, direbbe Hannah Arendt, a “schiuma della terra” nei Paesi di transito pagati per questo con le nostre tasse, e peccato che prima di violentarle, respingerle, torturarle, nessuno domandi loro se per caso abbiano bisogno di avanzare un’istanza di protezione.

A un giornalista che chiede a Meloni di commentare l’immagine di Fati e Marie e se sia nelle sue intenzioni condizionare gli accordi al rispetto dei diritti umani, lei risponde soltanto che “la democrazia crea sviluppo e lo sviluppo crea democrazia”, e che comunque, dietro queste scelte di collaborazione, c’è il pieno sostegno “dell’UE e di tutti i leader europei”. Non una parola per quelle vite stritolate dall’idea di sviluppo, di democrazia e di Europa che si sta costruendo a partire da questo Mediterraneo di sangue.

“Dobbiamo cercare di accompagnare queste nazioni e lavorare per avvicinarle ai nostri standard di riferimento” aggiunge anche, e allora viene da chiedersi quali siano davvero questi standard, se da quando le politiche di esternalizzazione delle frontiere sono state avviate con mandato e soldi dell’Occidente, l’efferatezza e la violenza dei paesi di transito non ha fatto che aumentare per adeguarsi alle sue richieste.

Il risultato è che le autorità libiche non sono mai state così colluse con il sistema di tratta e tortura di esseri umani, come ha concluso la Commissione indipendente Onu sui diritti umani che ha indagato in quel Paese, e che ha consegnato il suo dossier proprio in questa fine di luglio, affermando che esistono «ragionevoli motivi per ritenere che il personale di alto livello della Guardia Costiera libica, dell’Apparato di supporto alla stabilità e della Direzione per la lotta alla migrazione illegale sia colluso con trafficanti e contrabbandieri, che sarebbero collegati a gruppi di miliziani, nel contesto dell’intercettazione e della privazione della libertà dei migranti» e che «la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando di esseri umani hanno generato entrate significative per individui, gruppi e istituzioni statali».

Il risultato è anche che, se prima esistevano enormi dubbi sul fatto che la Tunisia potesse essere considerato un Paese terzo sicuro, in quanto sprovvista di procedure che rendessero effettivo l’accesso alla protezione internazionale dei richiedenti asilo, oggi non è più opinabile che ogni persona proveniente dall’Africa subsahariana rischi, nel paese di Saied, di venire rastrellata e subire abusi fino alla morte. 

Questa è la “cultura mediterranea” che stiamo esportando, postcolonialismo 2.0, in terre già pregne di violazioni e di violenze da secoli eterodirette, ma ora incoraggiate in cambio di milioni di euro negoziati alla luce del sole davanti alle telecamere di tutto il mondo.

E Giulio Regeni? Chiede ancora lo stesso giornalista che ha inutilmente parlato degli abbandoni nel deserto tra Libia e Tunisia.

“Non considero la questione archiviata” risponde Giorgia Meloni. Dopo una giornata trascorsa accanto al Presidente egiziano che tutto muoveva mentre Giulio veniva torturato per nove giorni prima di essere ucciso, e con cui nessun governo italiano, in questi anni, ha mai smesso di fare affari.

Foto: migranti al confine fra Libia e Tunisia/La Presse


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