Idee Cultura
La sparizione dei corpi che chiedono giustizia
Oggi assistiamo a una presa di distanza radicale dal corpo. A una sua svalutazione. Prendiamo il corpo dei bambini martoriati e amputati a Gaza, in Ucraina, e in tante altre parti del mondo. Possiamo davvero considerarlo come un simbolo culturale e nulla più? O non dovremmo difenderlo con tutte le nostre forze?

«È così strano avere un corpo, essere dentro un corpo». Lo scrive Mircea Cărtărescu, nel suo romanzo capolavoro, Solenoide. E poi sviluppa l’argomento a modo suo, cogliendo, del corpo, ciò che ci sfugge continuamente, ovvero il suo aspetto misterioso, creaturale, la sua radicale dipendenza da leggi che non sono le nostre:
«L’idea che vivo dentro un animale, che persino in biblioteca, quando leggo i Prolegomeni di Kant o All’ombra delle fanciulle in fiore, racchiudo in me visceri appiccicosi, sistemi e apparati gorgoglianti, sostanze nutrienti e putrescenti, che le mie ghiandole secernono ormoni, che il mio sangue trasporta zucchero, che ho una flora intestinale, che nei miei neuroni le vescicole piene di sostanze chimiche scendono attraverso microtuboli e le liberano nello spazio tra le sinapsi, che tutto questo accade senza che io lo sappia e indipendentemente dalla mia volontà, per delle ragioni che non sono le mie, tutto questo ancora oggi mi sembra una cosa mostruosa, il prodotto di una mente saturnina e sadica, che probabilmente ha impiegato eoni per immaginare come potere umiliare, terrorizzare e torturare più crudelmente una coscienza. Sì, vivo in un animale scisso, lubrico, mucillaginoso, continuamente alla ricerca di una boccata d’aria, un tubo che aspira materia strutturata ed elimina materia destrutturata, che avanza strisciando nella frazione di un nanosecondo su un granello di polvere dentro un universo grandioso e spregevole, che guarda in alto, di tanto in tanto, attraverso la pellicola dell’atmosfera, agli altri e più prossimi granelli di polvere disseminati nella volta celeste. Aspettando qualcosa da lassù, qualcosa che non arriverà mai, fin quando durerà l’eternità.»
Una visione cupa, dolorosa: il corpo come prigione dell’anima. Ma una visione che, almeno in parte, in questo libro bellissimo, si riscatta di fronte al corpo inerme ma glorioso, luminoso – oserei dire santo e sacro – di una bimba appena nata, la figlia del protagonista.
Il corpo, orrore e gloria
L’ultima frase è molto forte: «Aspettando qualcosa da lassù, qualcosa che non arriverà mai, fin quando durerà l’eternità». È una frase nella quale può riconoscersi l’umanità intera, ma alla quale il cristiano pone una seria obiezione. Perché qualcosa da lassù è arrivato, si chiama Gesù Cristo, ed è entrato nella storia nell’unico modo in cui si può entrare nella storia: dentro un corpo. Qui non può non venire in mente, nell’ostinazione con cui ha sempre riproposto questo tema, l’amato Papa Francesco. La parte più trascurata del suo insegnamento, delle sue parole, sembra essere proprio questa; ovvero che per il cristiano l’oggetto dell’attesa di Cărtărescu – lo stesso del Godot di Beckett – si è manifestato proprio dentro quei visceri appiccicosi, dentro quei sistemi e apparati gorgoglianti, dentro il sangue che trasporta zucchero e dentro il tubo che aspira materia strutturata ed elimina materia destrutturata. Dio nella carne. Scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani. Nel suo bel saggio C’era una volta il corpo, Walter Siti – che non credo si possa definire uomo di altari e devozione – riconosce questo unicum del cristianesimo: «I cristiani hanno attribuito al corpo fisico un’enorme importanza, tant’è vero che il loro Dio si è incarnato in un corpo umano e come uomo ha sofferto ed è morto. (…) All’eucarestia il prete dice “questo è il mio corpo” porgendo l’ostia consacrata e solo il calvinismo interpreta questo gesto in senso metaforico: per i cattolici quella del corpo di Cristo nell’ostia è una “presenza reale”. Quanto alla resurrezione della carne, è un dogma così forte che fino a poco tempo fa il cristianesimo proibiva la cremazione».
Dualismo e spiritualismo
Schematizzando molto, potremmo dire che il corpo è la linea di faglia della cultura occidentale. Due visioni si scontrano, come placche della crosta terrestre che confliggono sgretolandosi l’una dentro l’altra: da una parte il corpo come prigione dell’anima, dall’altra il corpo come valore assoluto, in quanto soggetto di santità e oggetto di salvezza.
Ma non siamo tutti materialisti, in realtà? Materialisti e edonisti, sempre in palestra a scolpire i nostri corpi e con una parte consistente del budget mensile investito in creme-unguenti-lozioni per migliorare il nostro aspetto fisico… Sì, lo siamo, finché siamo giovani e sani. Presto o tardi, però, anche il materialismo più convinto si trasforma in spiritualismo. Perché il corpo si disfa, muore. Il corpo è male. È prigione. Lo diceva Platone, lo dice Cărtărescu. Allora non rimane che lo spirito. Sono molto interessanti, a questo proposito, le credenze diffuse presso certi circoli transumanisti della Silicon Valley, raccolte da Mark O’Connell nel suo bel libro Essere una macchina. C’è gente che fa ibernare la propria testa decapitata (tutto il corpo costerebbe troppo) in appositi silos, con la speranza che un giorno la tecnologia sarà in grado di estrarre, dal cervello scongelato, il software dello spirito (o dell’anima) per poterlo trasferire in un nuovo corpo artificiale. Don DeLillo, scrittore tra i più grandi in assoluto, ha scritto su questo tema un bellissimo romanzo: Zero K.
Ma la riduzione di mente e cervello a software e hardware del sistema “persona”, altro non è che una riedizione, con parole aggiornate, del vecchio dualismo di Cartesio, dualismo che, come un fiume carsico, percorre la storia della cultura occidentale. L’idea che l’anima (o la mente, o lo spirito… per comodità usiamo questi termini in modo intercambiabile, operando una ulteriore semplificazione) si possa raccogliere in un flusso di dati, equivale alla speranza, un po’ assurda, che di essa si possano delimitare i confini. Ma già Eraclito ci aveva messi in guardia da una simile tentazione: «Per quanto tu possa camminare, neppure percorrendo intera la via, mai riusciresti a trovare i confini dell’anima: tanto profondo è il logos che essa porta con sé».
Noi siamo il nostro corpo
Enrico Berti è stato uno dei massimi conoscitori di Aristotele. In una bella e densa lezione reperibile su YouTube (qui), spiega che opporre l’anima al corpo (come fa il dualismo, del quale la deriva spiritualista è diretta conseguenza) è parte di una sapienza molto antica, confluita poi nelle religioni orfiche e nella filosofia pitagorica. Fu Aristotele, in opposizione al suo maestro Platone, a intraprendere una strada diversa, per la quale anima e corpo, pur rimanendo concetti distinti, non sono più elementi separati e in contrasto tra loro, quanto piuttosto i costituenti di quell’unità che chiamiamo persona vivente. Come spiega Enrico Berti, il De anima di Aristotele ci dice che «il corpo non è una delle determinazioni di un soggetto, ma piuttosto è esso stesso il soggetto. (…) In questa concezione, l’uomo non è più formato da due entità, è un’unica entità, e questa entità è il corpo. Io non ho un corpo, io sono il corpo. Però, attenzione: finché sono vivo. Una volta morto, quello è un cadavere, non sono più io. (…)». Per fare capire meglio questa idea, non così semplice, Aristotele fa degli esempi: «Se l’occhio fosse un animale, la vista sarebbe la sua anima. (…) Questo distingue Aristotele dal materialismo. L’uomo è corpo, ma il corpo non è solo materia perché l’uomo è un corpo vivente, quindi è un corpo animato».
Ritroviamo queste idee, espresse in vari modi e con le dovute differenze (anche sostanziali), in libri molto recenti come Corpo, umano di Vittorio Lingiardi. Commentando un altro libro piuttosto famoso sul tema, Lingiardi dice: «La mente-corpo è una, anche se sembrano due. Mentre ripara L’errore di Cartesio, Antonio Damasio lo dice chiaramente: non solo la separazione mente/cervello è mitica e fittizia, lo è più in generale quella mente/corpo».
Scomparsa del corpo
Oggi assistiamo a una presa di distanza radicale dal corpo. A una sua svalutazione. Perché il corpo è “natura”, e la natura – per esempio nel pensiero di Judith Butler – non esiste, è una costruzione culturale. Ma parlare di “natura” in questi termini equivale a smarrire il senso di una realtà che ci precede. Chi va per questa strada arriva alla negazione del corpo in quattro e quattr’otto. Così oggi è più facile dire “sono nato/a nel corpo sbagliato”, piuttosto che provare a verificare, fino a metterlo in discussione, il processo mentale che ci ha portati a formulare tale affermazione.
Stefano Brugnolo, amatissimo professore di letterature comparate recentemente scomparso, in un suo articolo riprende questa critica dell’intellettuale femminista Victoria Smith a Judith Butler:
«C’è un’enorme ironia nel fatto che Butler punti il dito contro i critici conservatori – e affermi che tutti i suoi critici sono conservatori – quando gran parte della sua popolarità si basa sulla paura della femminilità e sul desiderio di trascendenza fisica, che sono alla base delle posizioni religiose più conservatrici. Il corpo è regressivo, rozzo, un semplice sacco di carne, e il sesso femminile è sempre stato quello su cui è stata caricata l’incarnazione. L’uomo è mente, la donna è carne. Come scrisse Adrienne Rich , “il corpo è stato reso così problematico per le donne che spesso è sembrato più facile scrollarselo di dosso e viaggiare come uno spirito disincarnato”. (…) Butler non riesce a immaginare un mondo in cui tale identificazione non sia sinonimo di inferiorità, se non addirittura di bigottismo. È un tremendo fallimento dell’immaginazione, segnato non da ultimo dal fatto che Butler ha rinunciato del tutto all’identificazione con il sesso femminile. Qual è la sua più grande paura? Essere scoperta, o semplicemente essere una di noi?»
Nulla di nuovo, insomma. Vecchi gnosticismi, per cui la materia è male e solo lo spirito ha valore (e, naturalmente, la definizione di sé che lo spirito vuole darsi, a volte capricciosamente). Delle influenze gnostiche sui movimenti di emancipazione culturale della modernità ha parlato Eric Voegelin in un libro intitolato Il mito del mondo nuovo.
Il corpo può davvero scomparire?
Ma il corpo può davvero scomparire? Prendiamo il corpo dei bambini martoriati e amputati a Gaza, in Ucraina, e in tante altre parti del mondo. Possiamo davvero considerarlo come un simbolo culturale e nulla più? O non dovremmo difenderlo con tutte le nostre forze?
Ancora Walter Siti, nel suo bel libro citato più sopra, nota amaramente che a scomparire sono solo i corpi di quelli che possono permettersi il gioco contemporaneo della rincorsa alla virtualità (o al transumanesimo): «Il corpo lavoratore è dunque scomparso? (…) No, se ci guardiamo intorno al di là della Ztl delle metropoli, i corpi lavoratori esistono e sono corpi marginali; sono prima di tutto i corpi dei migranti che vengono scelti la mattina dai caporali per andare a coltivare i nostri campi e a raccogliere i nostri pomodori; sono i corpi delle donne che vengono molestate dai padroni con l’indifferenza con cui ci si approfitta di un animale; sono i corpi degli operai rumeni sulle impalcature, che attirano la nostra attenzione solo quando sono stesi a terra per un incidente. Sono i corpi che costano meno delle macchine. Sono i corpi dei poveri, che lavorino o no, i corpi degli homeless e dei dropout, rannicchiati e puzzolenti, che in centro città rovinano il decoro dell’ambiente.»
I corpi esistono, e chiedono giustizia. Ovvero chiedono, per prima cosa, di essere riconosciuti. Come nota tra le altre cose Alessandro D’Avenia, parlando di adolescenza, in un articolo apparso sul Corriere della Sera il 31 marzo 2025:
«Senza carne non “c’è storia”, perché non c’è il senso del tempo ma solo il flusso. Se la vita è tempo incarnato si educa solo nella carne (per questo stiamo ancora in classe con gli studenti o mangiamo a tavola insieme), mentre l’online, che occupa gran parte delle vite, disincarna. Il sintetico non sente la vita: alla domanda su come eliminare in poco tempo il cancro l’IA risponde: eliminando il genere umano. Risposta efficiente ma “senza senso”, senza carne. Bambini e adolescenti invece chiedono a noi un tempo sensato, incarnato e non sintetico; chiedono la restituzione del corpo, del limite, della realtà; chiedono di tirarli fuori dal flusso per respirare un po’. Chiedono di far scoprire loro la terraferma: la buona vecchia faticosa entusiasmante realtà».
Foto La Presse: un bambino palestinese ferito a seguito dei bombardamenti dell’esercito israeliano soccorso nell’ospedale Deir al-Balah a Gaza
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