Idee Generazione Z

Lavoro, dalla Great Resignation al “grande rimpasto” digitale

Per le nuove generazioni la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita si dissolve. Il contributo personale diventa valore economico anche quando non è formalmente riconosciuto come lavoro. Il rischio è che si consolidi una doppia illusione: da un lato, che sia possibile per tutti trasformarsi in lavoratori autonomi di successo nel digitale; dall’altro, che il lavoro subordinato possa restare immobile senza riformarsi, senza accogliere le esigenze di autonomia, creatività e senso che oggi emergono in modo sempre più evidente

di Simone Cerlini

Questo articolo riprende i temi del numero di maggio di VITA magazine che, in particolare, ha dedicato il capitolo 3 al rapporto tra rendita e lavoro: un viaggio collettivo a più voci per pensare a un modello economico che possa promuovere il reddito da lavoro sulle rendite. Il numero sarà presentato in un evento pubblico e gratuito oggi giovedì 29 maggio a Milano

Negli anni successivi alla pandemia di Covid-19, il fenomeno che inizialmente era stato definito come Great Resignation è stato ripensato in termini più attinenti alla realtà: l’analisi del World Economic Forum nel 2022 ha introdotto il concetto di Great Reshuffle, il “grande rimpasto”. Da allora qualche assunto si è consolidato: le transizioni occupazionali sono aumentate perché è cambiata la cultura e le aspettative nel lavoro, generando insoddisfazioni e insofferenza quando quelle aspettative venivano disattese. I job seeker, e in particolare i più giovani cercano oggi condizioni diverse: maggiore flessibilità, migliore work-life balance, possibilità di crescita personale, riconoscimento, senso. 

Il cambiamento nella cultura del lavoro è stato tematizzato a partire dalle difficoltà delle imprese a trovare candidati durante la ripresa post pandemica, per tentare correttivi e soluzioni. È opportuno evidenziare come i problemi di attraction (attrattività) e retention (fidelizzazione dei lavoratori) non colpiscono tutti i comparti allo stesso modo, non per tutti i profili e non per tutte le fasce di età. Il XXVI Rapporto Cnel sul Mercato del lavoro del 23 aprile 2025, mostra un quadro complesso: rimane bassa l’occupazione femminile e giovanile, permangono alti livelli di lavoro sommerso, il 45% delle posizioni vacanti nel 2023 risultava di difficile copertura, in crescita rispetto al 26% del 2019​, in particolare nei settori tecnologici e ad alta intensità di competenze​. Il calo demografico sta comprimendo la popolazione in età lavorativa, peggiorando la capacità di attrarre nuovi talenti​. La scarcity non riguarda tutte le qualificazioni allo stesso modo: il mismatch è più grave laddove le imprese richiedono alte competenze; nei lavori a bassa qualifica il problema principale è la sostenibilità​ in una congiuntura in cui i salari hanno perso potere di acquisto e il costo della vita nelle metropoli è diventata proibitiva, per cui per profili nel commercio, retail, HoReCa., logistica e trasporti locali esiste anche una forte componente territoriale. C’è un problema di allontanamento dal lavoro formale dei più giovani: anche a fronte di un aumento del numero di lavoratori e del tasso di occupazione complessivo, l’unica coorte che riduce la partecipazione è la fascia 15-34 anni (44,8%, -1% rispetto al 2023), con un tasso di inattività altissimo che cresce soprattutto per le femmine (M 43,2% D 56,5%).

Fino a qui, niente di nuovo: c’è un mutamento nell’approccio al lavoro che riguarda soprattutto le coorti più giovani e le ragazze, avvenuto durante la pandemia, ma quali sono le origini di tale mutamento? Comprendere le cause del cambiamento di cultura del lavoro ci può dare qualche suggerimento su come affrontarlo nei contesti aziendali. 

Partiamo da una constatazione: la Generazione Z si distingue per un rapporto ancora più stretto con il digitale. Secondo il rapporto Teens Social Media and Technology 2024 di Pew Research Center, i teenager americani utilizzano stabilmente YouTube (90% e circa il 15% di questi permanentemente connessi), TikTok (63% di cui 16% permanentemente connessi), Instagram (61% di cui 12%) e Snapchat (55%, di cui 13%). Tra il 2019 e il 2023 i giovani under 24 hanno trascorso stabilmente oltre 3 ore al giorno sui social media, circa il 30% in più rispetto alla media della popolazione generale. Le piattaforme sono diventate ambienti naturali di socializzazione, ma anche di formazione degli immaginari professionali. È attraverso questi canali che molti giovani hanno osservato, a partire dai mesi di confinamento, nuovi modelli di realizzazione personale e lavorativa.

Questa esposizione continua ha favorito un processo di apprendimento sociale, in cui il lavoro subordinato è stato confrontato quotidianamente con la promessa implicita di un’alternativa: quella incarnata dai creator, dagli influencer, dai lavoratori algoritmici. Figure come Khaby Lame, partito da un licenziamento nella fabbrica e diventato una star mondiale senza bisogno di parole, o come Buio, che dopo una vita da cameriere e barista ha trasformato la sua carriera (adesso è musicista professionista) grazie a video ironici e graffianti contro il razzismo, hanno rappresentato esempi concreti e visibili di riscatto attraverso il lavoro digitale. Sofia Viscardi, partita come youtuber adolescenziale, ha trasformato la propria visibilità in un percorso autorale e di divulgazione; Mattia Stanga, con i suoi sketch sulla vita quotidiana, ha raggiunto milioni di follower e ha dato avvio ad una carriera mobilitando l’interesse dei media generalisti.

Questa trasformazione percettiva è stata accelerata anche dall’emergere di figure adulte che hanno saputo utilizzare il digitale come strumento di valorizzazione culturale e professionale. Non si tratta solo di eccezioni come Alessandro Barbero, la cui popolarità ha travalicato l’ambito accademico grazie alla diffusione virale delle sue lezioni, ma anche di un fenomeno più ampio che ha coinvolto insegnanti capaci di intercettare l’interesse di migliaia di studenti attraverso piattaforme come TikTok, Instagram e YouTube. Docenti come Matteo Saudino (“BarbaSophia”), Ermanno Ferretti, Vincenzo Schettini (“La fisica che ci piace”) e moltissimi altri sono diventati punti di riferimento per i ragazzi delle scuole in grado di unire competenza e linguaggio accessibile, contribuendo a sdoganare l’idea che anche gli adulti potessero trovare un’espressione autonoma e remunerativa nella sfera digitale. Questo doppio movimento ha consolidato, nei giovani, la percezione di un’alternativa praticabile al lavoro subordinato tradizionale. La piattaforma non è più apparsa solo come terreno di gioco per pochi talentuosi o fortunati, ma come spazio potenzialmente accessibile, capace di offrire riconoscimento, autonomia e visibilità anche a chi proviene da percorsi scolastici o professionali ordinari.

In un contesto in cui il lavoro subordinato è percepito come rigido, impersonale, scarsamente valorizzante, il digital labor offre l’immagine di un’attività libera, personale, scalabile

Il successo economico e di popolarità di alcuni è diventano l’innesco per generalizzare la potenzialità delle piattaforme per la propria carriera, unitamente alla libertà che queste traiettorie sembrano incarnare: libertà di tempo, di luogo, di possibilità di valorizzare la propria passione e i propri talenti. In un contesto in cui il lavoro subordinato è percepito come rigido, impersonale, scarsamente valorizzante, il digital labor offre l’immagine di un’attività libera, personale, scalabile. Anche quando l’effettiva libertà è più apparente che reale, l’effetto culturale di questo confronto è potente. Non sorprende, allora, che le aspettative lavorative delle nuove generazioni si siano riallineate su parametri che divergono dalle strutture tradizionali: autonomia, flessibilità, riconoscimento immediato, possibilità di sviluppo creativo. Le piattaforme digitali sfruttano questo nuovo paradigma e diventano eco di questa narrazione: orientano i comportamenti premiando chi riesce a intercettare l’attenzione, chi sa auto-attivarsi senza bisogno di gerarchie e precetti diretti, trasformando il lavoro (il cui valore è estratto e non redistribuito se non in caso eccezionali e in minima parte) in un’attività ludica che corrisponde alla propria vocazione in modo diretto e immediato.

In questo modo, la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita si dissolve. Il contributo personale diventa valore economico anche quando non è formalmente riconosciuto come lavoro. L’auto-esposizione sui social, la produzione di contenuti, il mantenimento di una presenza visibile online sono attività che generano valore per le piattaforme, ma che sfuggono alle categorie tradizionali di protezione e remunerazione (se non in casi eccezionali e comunque sempre in misura insufficiente). Si lavora sempre, senza che il lavoro venga riconosciuto. Il rischio è che si consolidi una doppia illusione: da un lato, che sia possibile per tutti trasformarsi in lavoratori autonomi di successo nel digitale; dall’altro, che il lavoro subordinato possa restare immobile senza riformarsi, senza accogliere le esigenze di autonomia, creatività e senso che oggi emergono in modo sempre più evidente. Se una parte crescente del valore sociale viene prodotta fuori dai confini tradizionali del contratto di lavoro, è necessario pensare nuove forme di riconoscimento e di redistribuzione. Di contro, una visione più attinente alla realtà del digital labor, che prescinda dall’immagine edulcorata e gioiosa che le piattaforme hanno tutto l’interesse a veicolare, potrebbe magari disincantare le generazioni più giovani, ma forse anche allontanarli da illusioni pericolose. Perché la gratificazione di vedere riconosciuto e valorizzato il proprio talento non ha bisogno dei social network, ma è storicamente associata al mettersi a servizio e a rendersi utili agli altri e alla comunità.

Foto: Pexels

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