Idee Economia

L’immenso valore del lavoro invisibile (e non pagato)

Un prosumer lavora anche se non ha contratto. Una caregiver in famiglia lavora, anche se nessuno la paga. Un ragazzo che genera traffico per una piattaforma lavora, ma non lo sa. Il lavoro è cambiato. Non è scomparso. È diventato più frammentato, più sfumato, più faticoso da nominare. Continua a produrre valore che si trasforma in ricchezza che diventa rendita per pochi, che ne godono senza aver partecipato alla sua generazione. Come uscirne? Una strada c'è: abbattere le rendite

di Simone Cerlini

Questo articolo riprende i temi del numero di maggio di VITA magazine che, in particolare, ha dedicato il capitolo 3 al rapporto tra rendita e lavoro: un viaggio collettivo a più voci per pensare a un modello economico che possa promuovere il reddito da lavoro sulle rendite. Il numero sarà presentato in un evento pubblico e gratuito giovedì 29 maggio a Milano

Cos’è il lavoro, oggi? È una domanda che si è fatta più complessa man mano che si è ridotta la corrispondenza tra attività, remunerazione e riconoscimento sociale. Abbiamo tentato una definizione nel Manifesto della classe dei servi (Il Margine, 2023), come attività che genera valore per gli altri, contrapposta alle attività che svolgiamo solo per noi stessi. Oggi anche quella proposta traballa. Esistono forme di lavoro che non è facile inquadrare in una definizione: il tempo speso nel montare un mobile Ikea, portare un vassoio in mensa, compilare un form di richiesta, scrivere recensioni online o addestrare inconsapevolmente l’intelligenza artificiale con clic sulle piattaforme. In molti di questi casi c’è uno scambio: si risparmia sul prezzo o sul tempo, si guadagna visibilità, si consolida un legame familiare, o sociale. Ma c’è anche, più o meno evidente, una dinamica di estrazione di valore: l’azienda che vende il mobile ha esternalizzato il montaggio e generato un plusvalore tra la riduzione del prezzo e il lavoro non pagato del consumatore, il ristorante ha ridotto il costo del personale, la piattaforma monetizza i dati e i contenuti degli utenti. Eppure, queste attività non sono riconosciute come lavoro. Sono attività collaterali, marginali, collocate in una zona grigia tra produzione e consumo, tra azione volontaria, gioco e partecipazione forzata.

Il confine è poroso anche all’interno di ciò che chiamiamo lavoro remunerato. Un’attività può essere considerata lavoro in un contesto e non esserlo in un altro. Per un attore, un sex worker, un’atleta, allenarsi è parte integrante della prestazione lavorativa. Per altri, la stessa attività – andare in palestra – è un passatempo o una cura di sé. Così per l’autoformazione: c’è chi si occupa professionalmente di lavoro e nei momenti liberi legge romanzi. Se legge per piacere o per la propria crescita emotiva e umana, si dirà che è “tempo libero”; ma se legge Works di Trevisan, oppure un saggio sull’automazione, o una biografia operaia, sta forse investendo sulla propria competenza professionale, o almeno alimentando una tensione legata al proprio profilo lavorativo, che lo attraversa anche nel tempo non retribuito. Nella vita delle persone reali, la separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita è sempre meno netta. Si lavora pensando ad altro, e si fa altro mentre si lavora. Si lavora senza saperlo. Si è produttivi anche quando si è inconsapevoli, o stanchi, o fuori orario. Soprattutto on line. Il tempo “vuoto” è in realtà occupato in modo inconsapevole da attività che generano valore per altri: per le big tech, per il proprio datore di lavoro, per uno schema di reputazione in logica personal branding. Eppure quel lavoro non è pagato, né contrattualizzato, né rivendicato.

C’è poi un altro aspetto da tenere in conto, spesso eluso anche dai discorsi più attenti: il lavoro non pagato della cosiddetta “classe disagiata”. Chi opera nei mondi dell’arte, della cultura, dell’editoria, della produzione intellettuale – scrittori, illustratori, animatori culturali, ricercatori, drammaturghi, musicisti – spesso lavora in forma gratuita o semi-gratuita, contando sulla promessa vaga di un ritorno simbolico, sull’accesso ai circuiti giusti, su una forma di riconoscimento sociale che raramente si traduce in retribuzione economica. Ma dietro questa illusione si nasconde una struttura di classe: molte di queste attività sono rese possibili dal fatto che chi le esercita può permettersi di non essere pagato. Non perché vive d’aria, ma perché appartiene a famiglie borghesi o alto-borghesi che garantiscono rendite, alloggi gratuiti, paghette, coperture affettive ed economiche che consentono di navigare a lungo nel lavoro culturale senza bisogno di uno stipendio. 

Il lavoro gratuito della classe disagiata, allora, non è una forma di autodeterminazione antisistema ma un meccanismo di sfruttamento soft che regge in piedi l’intero sistema simbolico delle élite (sono le élite a fruirne i prodotti). Se a scrivere romanzi, fare teatro, promuovere dibattiti e curare mostre sono perlopiù figli della buona borghesia, è anche perché la società accetta – e talvolta celebra – il fatto che quei lavori non siano retribuiti. Ma cosa accade quando nella classe disagiata entrano anche figli di impiegati, di operai, di insegnanti precari? Cosa succede se a scrivere è uno come Trevisan, senza rete, senza rendita, senza sostegno familiare? Succede che vive come un escluso, anche quando pubblica libri importanti. Succede che la bohème diventa trappola. Che la vocazione diventa condanna. Succede, insomma, che il sistema culturale, anziché essere motore di emancipazione, si chiude su sé stesso e finisce per riprodurre con altre parole le stesse disuguaglianze che racconta.

Lo scrittore, salvo pochissime eccezioni, è oggi un lavoratore volontario. Come lo sono molti che lavorano nell’editoria, nel teatro, nella ricerca non strutturata. Eppure senza il lavoro di queste persone, intere istituzioni culturali, riviste, festival, piattaforme di pensiero, non esisterebbero. I passatempi dell’1% ne sarebbero compromessi, ma si sa che le élite vivono i loro privilegi come diritti dovuti. La domanda non cambia: chi si prende il valore prodotto da chi lavora gratis? E quanto ancora possiamo tollerare una produzione culturale che si alimenta di tempo non riconosciuto, di biografie sfiancate, di vite che non possono durare? Cui prodest?

Serve una definizione più ampia, capace di cogliere il lavoro come insieme di attività che producono valore economico o sociale, a prescindere dal riconoscimento formale o dalla retribuzione. Non per ideologia, ma per giustizia. Perché senza questa consapevolezza, milioni di persone continueranno a produrre ricchezza, che viene poi estratta verso l’alto, concentrata, trasformata in rendita. Un prosumer lavora anche se non ha contratto. Una caregiver in famiglia lavora, anche se nessuno la paga. Un ragazzo che genera traffico per una piattaforma lavora, ma non lo sa. Il lavoro è cambiato. Non è scomparso. È diventato più frammentato, più sfumato, più faticoso da nominare. Continua a produrre valore che si trasforma in ricchezza che diventa rendita per pochi, che ne godono senza aver partecipato alla sua generazione. Spesso per chi ha già capitale: strumenti, algoritmi e infrastrutture per appropriarsene.

Ma come sostenere questa redistribuzione senza aumentare il carico fiscale sul lavoro, senza scoraggiarlo? È alle rendite che dobbiamo guardare, ai grandissimi patrimoni, alle successioni per i discendenti che non hanno mosso un dito per guadagnarsi il tesoro famigliare

L’enorme massa di valore che si crea in questo modo – dal lavoro invisibile al micro-lavoro digitale – dovrebbe essere riportata alla luce, ricondotta a uno spazio di giustizia. Questo significa iniziare a chiedere che venga misurata, riconosciuta, tassata, redistribuita. Una parte di questa redistribuzione può assumere forme innovative: un dividendo digitale, alimentato dagli utili delle piattaforme, che redistribuisca parte del valore generato dagli utenti; un reddito di cura che riconosca l’impegno domestico e relazionale; un fondo per il sostegno al lavoro culturale e civico; una dote di autonomia universale per i giovani, finanziata da un’imposta progressiva sulle successioni; una piattaforma cooperativa dei dati che restituisca agli utenti parte del valore generato con la propria attività online. Ma come sostenere questa redistribuzione senza aumentare il carico fiscale sul lavoro, senza scoraggiarlo? È alle rendite che dobbiamo guardare, ai grandissimi patrimoni, alle successioni per i discendenti che non hanno mosso un dito per guadagnarsi il tesoro famigliare. Tutti strumenti diversi, ma uniti da un principio comune: se una società estrae valore dal tempo e dalla vita delle persone, deve trovare modi nuovi per restituire quel valore in forma di diritti, reddito, accesso, cittadinanza. Le lotte di domani devono partire da qui: dalla ridefinizione del lavoro, dalla rivendicazione del valore creato, dalla consapevolezza che senza una redistribuzione radicale di quanto viene generato collettivamente, nessuna democrazia potrà durare a lungo. Chi lavora deve poter essere riconosciuto per quello che genera per gli altri. Ma per questo dobbiamo prima tornare a vedere tutto il lavoro che viene svolto sotto traccia, ai margini, nelle intercapedini di un’economia che ancora finge di premiare solo chi genera valore per un datore di lavoro. Quando in realtà, moltissimo di ciò che ci circonda è già stato prodotto da qualcun altro. Spesso senza salario. Senza nemmeno un grazie.

Foto: Pexels

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