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Ma come parliamo?

“Mettere la persona al centro”: un’espressione da bandire

La complessità che attraversa la realtà in cui ci muoviamo avrebbe bisogno, se non di parole nuove, di parole giuste, utilizzate con cura. E invece di rifugiamo in formule che ormai passano senza lasciar traccia

di Maria Laura Conte

Le parole sono essere viventi. Si esauriscono o esaltano pure loro. Alcune, logorate dall’abuso che se ne fa, meriterebbero un ricovero in rianimazione (come per esempio suggerisce un linguista francese per le due parole “ti amo”). Mentre altre vivono una stagione di particolare splendore: resilienza, per esempio, o sostenibilità, o ancora diritti civili. Tornano spavalde nei consessi umani, incassano credito, garantiscono la posizione di chi parla e lo mettono al sicuro. Se tizio usa certe parole – pensa automaticamente il suo interlocutore – vuol dire che è incasellabile in una griglia precisa, è riconoscibile. Lo tiene sotto controllo, non si attende sorprese e si mette tranquillo. 

Una quota di tali parole viene usata per scelta, un’altra in modo inconsapevole: si attivano di per sé, quando il nostro cervello registra un determinato contesto e uditorio, si posizionano per uscire fuori, come appigli saldi per scalare.

Le frasi “garanzia” abbondano nelle occasioni ufficiali, in conferenze di vario livello. Nei summit di agenzie internazionali sono le regine assolute. Come al recente evento sui sistemi alimentari promosso dalle Nazioni Unite alla Fao a Roma: si è rischiata l’overdose di “assicurare investimenti in infrastrutture”, “aumentare l’efficienza per garantire il cibo a tutti”, “nessun bambino può morire di fame” o ancora “sviluppare le catene di valore”. Seduti nei saloni, ci si domanda a che pro una tale alluvione di ripetizioni: per convincere chi lo è già? Per tenere in piedi una recita, in cui ognuno prende la parola, ma nessuno ascolta? Perché questo è spesso un risvolto.

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Anche “mettere al centro le persone” si posiziona molto bene in contesti diversi, con un’appendice: “soprattutto i giovani e le donne”.  La centralità della persona è un claim molto ricercato: nel non profit e nel profit, viene declinato per un’ampia gamma di beni, dai progetti di cooperazione allo sviluppo, agli occhiali alle palestre. Richiama ciò che ci sta a cuore, la persona, cioè noi stessi, con i nostri bisogni, tic e aspirazioni. Riciclato così tanto, però, che ormai non solo si è svilito, ma produce l’effetto contrario: stanca, la persona al centro “non si può più sentire”. L’orecchio si abitua così tanto a certe espressioni, che non le registra più, passano senza lasciare traccia in un tutto indistinto, trascinandosi dietro anche i guizzi di idee originali che potevano contenere nelle intenzioni, il loro contributo di novità. 

Il problema non è lo snobismo per parole banali, ma la mancanza di sorpresa che queste comportano. Mentre tutta la complessità che attraversa la realtà in cui ci muoviamo avrebbe bisogno, se non di parole nuove, di parole giuste, utilizzate con cura. Parole nelle quali far inciampare chi ci ascolta o legge, per restare vigilanti tutti di più su quello che si vuol davvero comunicare. 

Sarebbe una rivoluzione dall’alto impatto: reimparare a scegliere le parole giuste da dire e a trattenere – come dei setacci – quelle preziose nei flussi che ci raggiungono. Alla fine è solo un esercizio di economia. O forse ecologia. Si tratta di ripartire dall’abc.

Foto di Mauro Mora su Unsplash


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