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Né vincoli, né rendicontazione: la filantropia targata Fondazione MacKenzie Scott

Cosa ci insegna l'esperienza visionaria della Fondazione americana? La prima cosa è che vale la pena prendersi qualche rischio in più

di Federico Mento

Negli ultimi anni, la Fondazione MacKenzie Scott è diventata rapidamente una delle organizzazioni filantropiche più note negli Stati Uniti. Nell’arco di un triennio, ha erogato oltre 14 miliardi di dollari, con donazioni non vincolate, ad oltre 1.600 organizzazioni delle società civile. L’approccio proposto dalla Fondazione ha sorpreso molte delle organizzazioni riceventi, poiché le donazioni non avevano vincoli nell’utilizzo, e pressoché nessun requisito di rendicontazione.

Non è affatto casuale che questa strategia erogativa, estremamente disruptive, della Fondazione MacKenzie Scott coincida da un lato con l’inizio della pandemia, che ha spinto rapidamente gli attori della filantropia ad approcci iper-semplificati per affrontare l’emergenza, dall’altro con l’emersione del tema delle disparità razziali negli Stati Uniti, a seguito dell’omicidio Floyd e alle numerose potreste che hanno lungamente attraverso le città statunitensi. La strategia erogativa della Fondazione è oggetto di un interessante lavoro di ricerca valutativa pluriannuale, realizzato dal Cep- Center for Effective Philanthropy


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Nel corso della prima annualità, il focus valutativo ha esplorato, in via prevalente, gli effetti sulle organizzazioni beneficiarie. Nel più recente report, Cep ha posto l’attenzione sia sulla dimensione gestionale dei grant da parte delle organizzazioni riceventi, sia sulla percezione di altri donatori rispetto alla capacità dei grantees di “maneggiare” efficacemente risorse così ingenti. Per la raccolta dei dati, Cep ha proceduto ad erogare una survey, realizzare delle interviste in profondità, richiamando alcune organizzazioni coinvolte nell’anno uno, ed interviste a leader di organizzazioni filantropiche.

Da un punto di vista contestuale, la ricerca ha evidenziato che le organizzazioni riceventi i grant sono dimensionalmente più grandi in termini di ricavi (media 6,5 milioni di dollari), se comparate alla dimensione media delle organizzazioni attive negli Stati Uniti, con bilanci che non superano i 500mila dollari. I grant erogati dalla Fondazione possiedono un dimensionamento “fuori scala” rispetto all’attività filantropica mainstream: nello studio del Cep l’erogazione media è di 5,75 milioni di dollari (!) ed è spesso superiore all’80% dei ricavi complessivi annuali dell’organizzazione ricevente. Per chi opera nel nostro contesto e spesso briga per poche decine di migliaia di euro, rigidamente impacchettate in processi e controlli, la lettura di queste cifre può risultare quasi spaesante.

I leader dei grantees intervistati hanno riportato una serie di benefici, determinati dalla strategia della Fondazione. A livello generale, le organizzazioni ritengono che attraverso il supporto finanziario abbiano perseguito con maggior efficacia la propria missione, introducendo elementi di innovazione, grazie all’accresciuta capacità di assumere rischi. Un ulteriore elemento significativo, segnalato dalle organizzazioni riceventi, è legato all’utilizzo delle risorse per avviare nuove collaborazioni e partneriati. Si tratta di azioni che di norma non trovano il supporto finanziario adeguato, eppure chi naviga da tempo nel settore sa bene che le reti “una tantum”, accroccate in fretta per rispondere ad un bando tendano ad essere molto più fragili, rispetto a partenariati nei quali il collante è la visione comune di cambiamento. Al medesimo tempo, alcuni grantees hanno riportato di aver avviato collaborazioni con istituzioni pubbliche o soggetti del settore privato. Anche su questo ambito di lavoro, non c’è particolare attenzione da parte delle organizzazioni della filantropia.

Eppure, pensando al lavoro di molti Ashoka Fellows che mirano ad ingaggiare attori strategici con i quali amplificare la potenza trasformatrice delle proprie soluzioni, abbiamo da tempo compreso che la costruzione di questi partneriati sono in grado di generare impatti sistemici estremamente significati.

Un nodo, a mio avviso cruciale, emerso dal lavoro valutativo è collegato al tema della leadership. Nelle interviste, infatti, le figure apicali dei grantees hanno evidenziato come attraverso la stabilità finanziaria, raggiunta attraverso il supporto ricevuto, abbiano avuto modo di lavorare sul ricambio generazionale delle organizzazioni, supportando la crescita professionali dei leader del futuro. Non solo, alcuni hanno spiegato di aver avviato una profonda riflessione su come favorire l’emersione di leadership provenienti da gruppi marginalizzati, lavorando sui bias e sulle relazioni di potere delle organizzazioni. 

Seppur una larga maggioranza delle organizzazioni abbia rappresentato un quadro decisamente positivo dell’impatto della strategia della Fondazione, con delle prime evidenze di efficacia sulle comunità nei quali i grantees intervengono, un esiguo numero di intervistati ha espresso preoccupazione sull’effetto “precipizio”, ovvero il momento nel quale andrà ad esaurirsi il grant, aprendo nuovamente il tema della sostenibilità finanziaria dell’organizzazione. Su questo aspetto, Cep ha rilevato che le organizzazioni hanno colto l’occasione del grant per rafforzare la propria struttura, proprio alla luce della finitezza delle risorse, mostrando una buona capacità predittiva nella gestione dei rischi. Per quanto riguarda il versante degli altri donatori, nel corso delle interviste è emerso sia l’apprezzamento nei confronti della policy della Fondazione, così come preoccupazione rispetto all’effettivo utilizzo delle risorse, che possono paradossalmente ingolfare l’operatività deli grantees.

Allo stesso tempo, alcuni degli altri donatori hanno avanzato preoccupazioni relative alla dimensione dell’accountability, della trasparenza e nella difficile replicabilità di questo approccio erogativo. Cep si ripromettere di approfondire il lavoro di ricerca nella terza annualità, fornendo ulteriori evidenze circa il modello filantropico proposto dalla Fondazione MacKenzie Scott, in particolare rispetto alla dimensione finanziaria delle organizzazioni, prima e dopo il grant, e la dimensione evolutiva, mettendo a confronto i grantees con organizzazioni analoghe che non hanno beneficiato delle erogazioni della Fondazione.

In attesa delle nuove lezioni, credo sia utile riflettere su modelli erogativi innovativi, come quello della Fondazione MacKenzie Scott, con alcuni doverosi caveat. Il primo è legato alle dimensioni poiché nessun soggetto filantropico nostrano avrebbe la capacità di avvicinare le risorse stanziate da MacKenzie Scott. Il secondo è legato alle differenze di cultura filantropica, che scaturiscono da processi storici e sociali, la filantropia americana è molto diversa dalla nostra. Il terzo è connesso alla propensione al rischio, non a caso siamo il Paese del piccolo risparmio e del mattone.

Ciononostante, provo a soffermarmi su alcune delle lezioni apprese, in particolare sull’impatto organizzativo. Siamo consapevoli dell’esistenza di un gigantesco problema generazionale che riguarda le organizzazioni della società civile, sia in termini di ricambio sia di attrattività. Perché, ad esempio, non disegnare “grant per la transizione generazionale”, che possano accompagnare l’organizzazione in questo delicato passaggio, che necessita di tempo e di energie da parte delle leadership, sempre oberate dalla sfida costante della sostenibilità. Così come, pensare a “grant DEI” che favoriscano una maggiore inclusività, al fine di aumentare l’ingaggio nelle governance delle organizzazioni delle comunità marginalizzate. In quante organizzazioni che per missione si occupano di una certa popolazione target, quegli stessi stakeholder non hanno alcuna voce o rappresentanza? Infine, ma non meno importante, il tema dell’innovazione, sul quale la filantropia può davvero giocare il ruolo del gamechanger. Pensiamo per un istante al potenziale del Fondo per il contrasto della povertà educativa, un’intuizione brillante che nasceva appunto per attivare innovazione, sperimentare e testare nuovi modelli di intervento. Quanto di quella forza trasformatrice è rimasta impigliata in processi e controlli? Spero che le evidenze valutative, realizzate in questi anni, confutino questa mia preoccupazione. La filantropia ha una grande sfida, direi costitutiva, muoversi tra la cura ed il rischio. Prendersi cura delle proprie risorse e del proprio patrimonio, perché dall’uso che se ne fa, dipende la capacità di prendersi cura della propria comunità. Il rischio del fare, perché solo chi fa può sbagliare, che in mondo sempre più complesso diviene il rischio dell’innovazione. L’esperienza visionaria della Fondazione MacKenzie Scott ci insegna che possiamo provare a prendere qualche rischio in più.

Foto: Julia M Cameron/Pexels


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