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Perché l’intelligenza artificiale piace più ai 50enni che ai 20enni

I giovani vedono nell’intelligenza artificiale una minaccia in termini di occupabilità e inserimento nel mondo del lavoro. Agli adulti invece piace perché consente loro di evitare mansioni ripetitive e routinarie

di Stefano Laffi

Ho sempre avuto la sensazione che la definizione di “nativi digitali” nascondesse nel senso comune un equivoco, cioè che la familiarità coincidesse con la competenza. Quando io sono nato c’erano sia la bicicletta che l’automobile, ma con la prima sono diventato abilissimo molto presto, mentre la patente l’ho presa tardi e non mi considero molto abile nella guida. Il digitale è certamente familiare per le nuove generazioni, mentre non lo sono i loro equivalenti analogici, perché un fax, una macchina da scrivere o una macchina fotografica a pellicola potrebbero risultare oggetti sconosciuti. Ma il sapere d’uso è una forma contratta di sapere, perché tutto dipende da quanto lo usi davvero, e per farci cosa, e comunque sarà molto al di sotto delle loro potenzialità. Un semplice esempio, l’uso del computer è di fatto sconosciuto a moltissimi adolescenti, per la banale ragione che provano a fare tutto il possibile col telefono, che possiedono prima e più spesso. 

Ora è di scena l’intelligenza artificiale. Quindi per la prima volta vedono giungere nelle loro vite qualcosa “dentro la quale non sono nati”. Migrano, anche loro, come le persone più adulte, nel mondo nuovo. “È nuovo, piacerà ai giovani”, è un pensiero implicito, analogo all’equivoco della familiarità, è l’idea di una neofilìa, di uno spirito amante del nuovo determinato dall’anagrafe. Ma chi ha a che fare con le giovani generazioni sa che a volte sono anche molto conservatrici, non sposano la novità se non le convince. O le destabilizza. 


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Mi è capitato di ragionare di intelligenza artificiale con un gruppo di giovani, 20-25 anni di media. Nessun entusiasmo, molte perplessità, qualche paura. Come mai? Per me l’idea di non dover trascrivere più le interviste, avere una mano nelle traduzioni, reperire all’istante una bibliografia è una bellissima notizia. Per loro, in una fascia di età che si affaccia al lavoro e non ha conosciuto quelle fatiche, non ha lo stesso sapore. Di più, gli adulti stanno chiedendo all’intelligenza artificiale qualcosa che forse prima chiedevano esattamente a giovani neo-assunti, per una questione di maggiori competenze – per esempio linguistiche o informatiche – o di routinarietà della mansione, ovvero quel principio vessatorio per cui chi inizia deve spesso fare le attività più ripetitive in attesa di imparare le altre. Modificare una fotografia, fare un logo, elaborare dati, scrivere testi promozionali per social e newsletter,… gli adulti festeggiano di poterli fare da soli anche senza “saperli fare” – è questo il regalo – mentre le nuove leve temono di perdere opportunità. 

Il timore è in realtà lo stesso per tutte le generazioni, quello di “perdere il controllo”, di non sapere esattamente come si genera il risultato, di non poter evitare abusi. Questo è un anno di elezioni, il rischio di condizionamento e manipolazione è noto. Ma chi ha 50 o 60 anni si sente meno in pericolo, si gode di più il sollievo da certe mansioni, lo sconto di abilità che non ha fatto a tempo a sviluppare. E poi si è già affidato alle macchine tutte le volte che poteva, forse il suo immaginario è modellato sugli elettrodomestici, cioè macchine che ti risparmiano fatiche di cui nessuno ha nostalgia. Le giovani generazioni forse vedono nell’intelligenza artificiale anche una minaccia, il loro immaginario è più quello dei robot sostitutivi e la posizione precaria nel mercato del lavoro li rende più esposti ai cambiamenti in corso nel fabbisogno di competenze. Questa tecnologia è nuova per loro come per i loro genitori, questa volta senza vantaggi di posizione: è un’occasione, siamo tutti costretti a migrare, siamo in viaggio, insieme.

Foto di Cottonbro studio/Pexels


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