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Torino, il cardinale, la predica e un sogno a impatto per i disillusi

Nella festa patronale, l'arcivescovo Roberto Repole ricorda le emergenza sociali dell'ex-capitale d'Italia, come la demografia e le povertà, accusa l'iperliberismo che genera lavoro povero e biasima quei ricchi che preferiscono tenere i loro patrimoni nelle banche anziché immetterli nell'economia reale. Un'omelia che fa discutere. Chissà che la ricchezza associativa, il progetto della Borsa dell'impatto e il Piano per l'Economia sociale possano offrire presto ai risparmiatori disincantati un'occasione per riappassionarsi

di Giampaolo Cerri

Qualcuno ci potrebbe leggere una riedizione, aggiornata, della parabola dei talenti, il passaggio dell’omelia del cardinal Roberto Repole, arcivescovo di Torino, nella messa di san Giovanni, patrono della città.

Porporato giovane, non ha ancora 60 anni, Repole è figlio dell’immigrazione del Boom, quella che trovò pane e fece famiglia sotto la Mole: la madre siciliana di Corleone (Pa), il padre lucano di Rapone (Pz). Per questo, forse, pur essendo fine teologo plurilaureato, sua eminenza è abituato a parlar chiaro.

E allora, desideroso, come fanno molti suoi colleghi, di dare alla festa della città anche il valore di una riflessione su se stessa, lo scorso 24 giugno ha sottolineato alcune questioni che sotto la Mole sono vive e mordenti.

La città che non fa figli e l’iperliberismo

Dopo aver ricordato la crisi demografica che attanaglia la città, l’arcivescovo ha intravisto fra le concause l’«iperliberismo», così lo ha chiamato, «che sta trasformando il lavoro in una merce disprezzabile: c’è il problema delle aziende che spostano la produzione lontano dalla città, mentre qui a Torino il 75% dei giovani (quelli che restano) trova solo più lavori precari, contratti di pochi mesi o addirittura giorni. Come pretendiamo che mettano su famiglia e facciano figli?».

Proseguendo il suo ragionamento dal pulpito della cattedrale, Repole si è detto che «forse è lo stesso iperliberismo che porta ad un fenomeno tutto torinese di immobilizzazione del denaro accumulato dai grandi proprietari di patrimoni, che preferiscono tenerlo nelle banche, in quantità immense, piuttosto che investirlo nel circuito delle imprese e nello sviluppo dell’economia reale». Insomma, per stare alla parabola di cui sopra, il caso del servo che, ricevuto un talento, andò a sotterrarlo.

Non un’invettiva ma un ragionamento
politico-economico

Non una invettiva contro il servire Mammona, come metteva in guardia Gesù, o contro «lo sterco del demonio», come san Basilio avrebbe definito il danaro; insomma non una tirata alla maniera di un prete operaio vecchio stile (ma ci sono ancora?), quanto piuttosto un ragionamento, economico e al tempo politico, piuttosto fine: «Non si può certo pretendere che i proprietari di patrimoni investano senza prospettive di reddito adeguato», ha detto l’arcivescovo, «a allora bisogna convincerli, bisogna portarli dalla parte della città. Il problema è una città che non riesce a convincerli. Torino», ha proseguito, «ha immense sacche di povertà ma paradossalmente è anche la terza città d’Italia per numero di famiglie benestanti, che l’anno scorso hanno incrementato i patrimoni privati di un altro +6%: 76 miliardi di euro sono chiusi nelle banche».

Qualcuno non l’ha presa bene: Guido Marsiaj, patron della Sabelt e già a capo dell’Unione industriali, ha affidato oggi il suo rammarico al collega Christian Benna del Corriere Torino: «Le parole di Repole sono giuste perché ci spingono a fare di più. Ci mancherebbe. Ma se penso al ruolo delle aziende familiari che restano sul territorio nonostante le crisi e le tensioni internazionali, mi viene da dire il contrario. La nostra borghesia è viva e vegeta, e con essa il nostro  territorio»

I torinesi che seppero costruire

Quella dell’arcivescovo peraltro è anche una critica alla politica, incapace di comunicare agli amministrati un’idea di città per la quale valga la pena investire i propri risparmi. Certamnte è anche una critica a questi concittadini abbienti ma avvizziti nella rendita, così diversi, non diciamo dagli Agnelli, che hanno avuto con la città un rapporto ambivalente ma ai quali in ogni caso si deve un’eccellenza come l’Irccs Candiolo, ma dai Lavazza o dai Giubergia, dinastie capaci non solo di una imprenditoria for profit ma anche di una solida filantropia, con realtà cui tutta l’Italia guarda, come la Fondazione Time2, creata dai primi, o la Fondazione Paideia, messa in piedi dai secondi. E stiamo parlando della città dove l’ingegner Giovanni Cottino, industriale elettromeccanico, decise di costruire più di 20 anni fa una fondazione che ha dato vita al Cottino Social Impact Campus, una delle realtà più avanzate d’Italia nella formazione sociale, sull’impatto e sulla sostenibilità.

L’altra Torino, quella dell’impatto sociale

Questo riferimento all’impegno filantropico di alcuni industriali ci consente di ricordare la ricchezza sociale del capoluogo piemontese, che si esprime in quell’unicum di innovazione e capacità di networking che è Torino social impact, grande ecosistema in cui vivono oltre 380 associazioni, enti, imprese sociali, cooperative, capace di dare consistenza, con l’aiuto di Camera di Commercio e Compagnia di San Paolo, a una visione di futuro particolarissima: la Borsa dell’impatto sociale. Ancora in fase sperimentale – una simulazione di quotazione, con un pugno di aziende, è stata effettuata nel 2023 – la “Piazza Affari sociale” sul Po fa intravedere un futuro non lontano in cui gli investitori sociali potranno trovare progettualità da sostenere.

Non solo, Torino Social Impact è la comunità che è stata capace di dare impulso al Piano metropolitano dell’Economia sociale 2030, che sarà sottoscritto proprio lunedì dal segretario di Cciaa Torino, Guido Bolatto, e da Sonia Cambursano, consigliera della Città metropolitana di Torino con delega allo sviluppo economico.

La Borsa una chance per i disillusi

Ci sono tutti gli ingredienti perché, entro pochi anni, la Torino dell’impatto sociale possa offrire ai concittadini, benestanti ma disillusi, ricchi ma algidi e incapaci di vedere futuro, qualche buon motivo di per impegnare parte dei loro patrimoni. Una scommessa? Forse.

Speriamo che non passino troppe omelie di san Giovanni prima che il “nostro vescovo Roberto”, come recitano i cattolici torinesi nella messa domenicale, possa festeggiare il cambio di attitudine, ricordando quelli che, come scrisse l’evangelista Matteo, ricevettero i talenti e, anziché seppellirli, li fecero fruttare.

Leggi l’omelia del cardinal Repole qui sotto.

Nella foto di apertura, di Marco Alpozzi per LaPresse, l’arcivesco di Torino, Roberto Repole.

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