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Migranti

Vi racconto la fine della storia di “Io Capitano” (che nel film non si vede)

Avete visto “Io, Capitano”? Vi siete commossi e immedesimati nella sorte del suo protagonista? A quel film, bello e importante, manca la conclusione della storia, che con tutta probabilità avrebbe avuto come sfondo la cella di qualche carcere del nostro bel Paese, dove rinchiudere quel ragazzo innocente e coraggioso, esattamente come il mio amico Jamal

di Alessandra Sciurba

Questa volta racconto una storia. La storia di una persona che conosco, e che è la storia di tantissime altre persone come lui. Uso un nome di fantasia, lo chiamo Jamal, questo amico che ho varie volte incontrato in un carcere italiano, dove è recluso da molti anni a scontare la colpa di altri che non pagheranno mai, e che agiscono a livelli ben diversi.

Jamal è stato accusato e poi condannato perché ritenuto uno “scafista”, che nel gergo politico significa uno che a scopo di lucro mette a repentaglio la vita delle persone che attraversano il Mediterraneo in cerca di un posto e di un futuro migliore. Invece, Jamal era proprio un passeggero costretto come tutti gli altri alla sfida imposta dalle politiche migratorie europee: quella di provare a salvarsi attraverso le rotte più pericolose e viaggi che anche se sopravvivi ti cambiano per sempre.

Jamal ha degli occhi bellissimi che nonostante tutto guardano ancora dritto nei tuoi e ti danno fiducia, nel suo Paese studiava e faceva sport, aveva una famiglia amorevole, amici e molti desideri per il suo futuro. Poi è arrivata la guerra, e li ha infranti. Dopo avere resistito per mesi, a un certo punto ha pensato, e non è stata una scelta facile, che solo andando via avrebbe potuto darsi una possibilità di restare vivo e di diventare ancora la persona che voleva essere. Ed è partito su una barca di legno strapiena, come sempre, ben oltre il limite della sicurezza, stipata di donne, uomini e bambini dai trafficanti libici, quelli veri, quelli che agiscono in contiguità coi carcerieri delle milizie che gestiscono i centri di detenzione in Libia, all’interno di un sistema che il governo italiano conosce e conosceva benissimo anche quando ha deciso, nel 2017, di attuare un Memorandum di intesa che ha in questi anni fornito i mezzi per continuare a perpetrare le violenze e le torture di cui ormai nessuno può più dire di non essere a conoscenza.


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Nel viaggio di Jamal sono morte molte persone, e in un modo terribile. I sopravvissuti sono stati sbarcati in un porto siciliano, e subito, come sempre avviene, è stato chiesto loro di identificare chi a bordo del mezzo con cui erano arrivati avesse avuto un ruolo di comando. Interviste sommarie a gente appena scampata alla morte, spesso condotte con interpreti improvvisati o di lingue sbagliate, mostrando fotografie e chiedendo di puntare il dito su una di quelle, a chi avrebbe bisogno solo di rendersi conto che è ancora in vita, in un paese straniero di cui non conosce nulla, e ha paura di tutto.

Così si aprono le indagini in questi procedimenti in cui per forza bisogna incolpare qualcuno; così si costruiscono i capri espiatori per crimini i cui veri colpevoli si nascondono in questo modo. Così si arriva velocemente alla conclusione del primo grado di giudizio, quasi sempre con una difesa d’ufficio e la mancanza di una piena comprensione dei passaggi da parte di chi è stritolato in queste dinamiche. I testimoni su cui l’accusa è stata costruita quasi sempre scompaiono, nei gradi successivi non si riesce nemmeno a reperirli per controinterrogarli. Nessuna garanzia, nessuna tutela, e un ragazzo che cercava solo di continuare a vivere può essere condannato anche all’ergastolo.

Chi guadagna sulla disperazione non si unisce mai alla sorte dei disperati, e i politici che continuano a sfornare decreti sicurezza che inaspriscono le pene per chi viene identificato come “scafista”, mentre continuano a fare accordi con il potere che in Libia e in altri Paesi di transito gestisce il traffico delle persone in migrazione, non possono non saperlo. Ma non importa quasi a nessuno (anche se ci sono tanti avvocati e avvocate che si battono come possono per ripristinare un po’ di giustizia), e certamente non importa a nessuna delle istituzioni che avrebbero potuto salvare Jamal e che invece hanno ritenuto utile il suo sacrificio, come quello di tantissimi altri.

Secondo il rapporto “Dal mare al carcere”, redatto dall’associazione Arci Porco Rosso di Palermo con il sostegno della rete transnazionale ‘Watch the Med – Alarm Phone’, in collaborazione con le onlus Borderline Sicilia e borderline-europe, nel solo 2022 sono state 264 le persone fermate in seguito agli sbarchi. Tra queste, la maggior parte ha sicuramente una storia molto simile a quella del mio amico, e probabilmente tante di loro si troverebbero riflesse nelle parole che mi ha detto lui, qualche tempo fa: «Sapevo di poter morire lasciando il mio Paese, e di avere a stento qualche possibilità di farcela, ma ho scelto di partire. Se avessi saputo invece di avere anche una sola possibilità su un milione di finire in questa prigione per qualcosa che non ho commesso, avrei preferito restare in mezzo alla guerra».

Avete visto “Io, Capitano”? Vi siete commossi e immedesimati nella sorte del suo protagonista? A quel film, bello e importante, manca la conclusione della storia, che con tutta probabilità avrebbe avuto come sfondo la cella di qualche carcere del nostro bel Paese, dove rinchiudere quel ragazzo innocente e coraggioso, esattamente come il mio amico Jamal. 

foto: Sintesi


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