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Volenti o nolenti “gli altri” siamo noi

La lezione del filosofo Maurizio Ferraris: «Se c’è un senso del vivere sta proprio nel convivere, nel passare il proprio tempo con i propri simili e nell’eleggerne alcuni come portatori di significati unici»

di Maria Laura Conte

 «Comunque lo vuol sapere il mio problema? Non mi piacciono gli altri». È così, piatta piatta, la confessione di Nanni Moretti in una scena celeberrima del film Bianca, che torna periodicamente come un meme virale sui social media di account snob. In cinque secondi Moretti sintetizza l’essenza dell’individualismo esasperato, dell’ego infastidito dal fatto che ebbene sì, esistono gli altri, e sì, si muovono intorno a noi.

Questo soggetto “gli-altri” è capace di assumere tanti profili: è la societas per i filosofi politici, la comunità per i sociologi o i religiosi, la compagnia per chi si dà l’appuntamento in piazza dopo la scuola; ma è anche riferibile a quella certa gente che altrove ha bisogno di qualcosa e si impone nei telegiornali, o a chi disturba nel pianerottolo del nostro stesso condominio. Gli altri sono un soggetto multiforme che, prossimo o remoto, ci sta addosso, in tutte le età e contesti, con diversi gradi di parentela. 

“Gli altri” sono un pronome indefinito plurale che provoca il nostro essere singolare, su tutti i fronti: si intromette nel nostro lavoro, nelle emozioni, nel tempo libero. Con la loro presenza, ma anche drammaticamente con la loro assenza, questi altri ci investono dall’alba al tramonto, e a volte popolano perfino i nostri incubi. Sono un inciampo? A seconda delle fasi della storia e di come l’uomo si è procacciato da vivere, hanno avuto più o meno fortuna. Ne abbiamo bisogno ora? Ci servono? E se ci servono, sono a nostra disposizione? Oppure noi serviamo a loro? Perché ci costringono a una spettacolare continua inversione di prospettiva: gli altri siamo (anche) noi.


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Nella nostra epoca che qualcuno acutamente descrive come governata da Narciso, si fa interessante interrogarsi su quale consistenza sia rimasta alla relazione noi-gli altri. Su come stia in effetti, consunta o sana? Basti pensare a quanto si può essere logorata stando alla base di ogni forma di comunicazione, campagne di brand awareness o di digital marketing, per citare esempi molto praticati dallo stesso non profit, che poggiano a diversi livelli sull’intento di risvegliare un io (singolare, con i suoi desideri e bisogni) perché si attivi con e per degli altri (diversi ma portatori di altrettanti desideri e bisogni).  

L’arte di stare con gli altri, Come trattare gli altri e farseli amici, Che ne sanno gli altri: in libreria non si contano i saggi che si arrampicano sulle tattiche da offrire per aggiustare o equilibrare questa trama resa ancor più complessa dall’esorbitante peso assunto dall’ego, con le sue ansie.

Ma tra questi spicca un piccolo saggio recente, che rilancia il binomio io-gli altri in un ragionamento articolato sull’ “Imparare a vivere” (questo il titolo), scritto dal filosofo Maurizio Ferraris, che declina la sua lezione in tre passi: sopravvivere, previvere e convivere. Confida l’autore che l’idea di questo libro è scaturita dopo una battuta d’arresto accidentale (una caduta letteralmente), che lo ha costretto a fermarsi per un po’ e quindi a rivedersi in azione nel suo modo di porsi con gli altri. Da studioso, dall’altezza di un’invidiabile frequentazione con autori come Montaigne, Heidegger, Nietzsche, Derrida, Proust, atterra nell’ultimo capitolo della sua riflessione a una semplicissima, umanissima, conclusione: «È il convivere che raccoglie il sugo della storia» (sue testuali parole). Ammette di essersi sbagliato in passato ad aver considerato beata la vita solitaria nelle biblioteche o nelle città deserte d’estate, senza rumori e senza disturbatori, e ad aver vissuto come un obbligo sgradevole la convivialità dei pranzi di famiglia. Che errore di valutazione! Dopo lo stop imposto, che lo ha messo fuori gioco per qualche mese, Ferraris confessa una conversione (cambio radicale di direzione): la grande bellezza – scrive – sta proprio nella convivialità, nell’incontro con gli altri: «Se c’è un senso del vivere sta proprio nel convivere, nel passare il proprio tempo con i propri simili e nell’eleggerne alcuni come portatori di significati unici». Unico rammarico che si coglie tra le righe è di essere arrivato tardi a questa consapevolezza, nell’età che separa l’uomo maturo dall’uomo vecchio. Chissà come si tradurrà in pratica ora questa autocoscienza, che cambiamenti potrà generare.

Forse quanto scrive Ferraris è il sintomo di un cambio di passo sottotraccia? Forse Narciso si prepara a cedere il suo posto al timone del nostro tempo a qualcuno di più cordiale? 

Foto di Kaique Rocha/Pexels


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