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Il Papa alla Biennale, l’arte “città rifugio”

Il Papa a Venezia al Padiglione Vaticano al Carcere femminile della Giudecca che è stato giudicato la cosa più importante e nuova di questa 60° Biennale veneziana. Un viaggio senza precedenti accompagnato da parole destinate a lasciare il segno. E ad aprire nuovi orizzonti agli artisti stessi

di Giuseppe Frangi

Un papa alla Biennale di Venezia è una sorta di corto circuito della storia: due pianeti sino a ieri in ogni senso lontani, “stranieri” l’uno con l’altro, che invece frantumano il muro di incomunicabilità e iniziano un rapporto di amicizia e di stima. Questo è accaduto nelle ultime settimane: con parere unanime degli addetti ai lavori il Padiglione Vaticano al Carcere femminile della Giudecca è stato giudicato la cosa più importante e nuova di questa 60esima Biennale veneziana. Poi è arrivato Francesco, primo papa della storia a mettere piede in una mostra d’arte d’importanza globale ma specchio di un mondo quanto mai lontano dalla chiesa. Francesco non se n’è fatto problema e ha seguito il metodo che ha segnato questo pontificato così felicemente anomalo: il metodo dell’incontro.

Il Papa incontra le detenute alla Giudecca

Dopo avere dialogato con le detenute (nella foto qui sopra), sottolineando come loro stesse fossero parte attive dell’evento artistico, ha appunto incontrato un gruppo di artisti. Ha cancellato il capitolo delle possibili precondizioni per un dialogo, anzi ha voluto sottolineare che «accanto a voi non mi sento un estraneo: mi sento a casa». Poi è venuto al dunque. «Il mondo ha bisogno di voi», ha detto agli artisti. Perché l’arte può far saltare quell’egoismo «che ci fa funzionare come isole solitarie invece che come arcipelaghi collaborativi. Vi imploro, amici artisti, immaginate città che ancora non esistono sulla carta geografica: città in cui nessun essere umano è considerato un estraneo».

Gli artisti sono gli artefici di “città rifugio”, che sono entità che disobbediscono «al regime di violenza e discriminazione per creare forme di appartenenza umana capaci di riconoscere, includere, proteggere, abbracciare tutti. «Tutti, a cominciare dagli ultimi». L’arte nasce per sua natura nasce per un bene di tutti, come è sempre accaduto nella storia. In particolare per chi sembra non esserne il destinatario: i poveri. Nel discorso in Vaticano del 23 giugno 2023 Francesco aveva raccomandato senza mezzi termini «di non dimenticare i poveri… Anche i poveri hanno bisogno dell’arte e della bellezza… Di solito non hanno voce per farsi sentire. Voi potete farvi interpreti del loro grido silenzioso». I poveri quindi come persone e non come categoria sociologica; i poveri destinatari non di discorsi su di loro, ma di una bellezza che possano sentire come propria. A Venezia Francesco ha ripreso l’appello coniando un neologismo: l’“aporafobia”, la paura dei poveri. Tra le antinomie che segnano la vita del mondo di oggi (razzismo, xenofobia, disuguaglianza…) è la più nascosta, la più dimenticata. Tra le righe il Papa ha assegnato dunque un preciso compito agli artisti, nella coscienza che «nessuno ha il monopolio del dolore umano».

Chi l’ha capito meglio sono le artiste perché gioia e sofferenza «si uniscono nel femminile in una forma unica e di cui dobbiamo metterci in ascolto, perché hanno qualcosa di importante da insegnarci».  E a sorpresa oltre a Corita Kent, tra le artiste presenti nel Padiglione, fa i nomi di Frida Khalo e soprattutto di Louise Bourgeois: colei che non a caso aveva detto l’arte è una capacità riparativa, di ricucitura e in ultima analisi di perdono.


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