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Cooperazione & Relazioni internazionali

Adozioni, un sistema da rifare? Ecco il pensiero delle famiglie

Il sistema adozioni ha bisogno di essere rivisto. Lo ha scritto Marco Rossin su VITA una decina di giorni fa e lo ha detto a dicembre a Roma anche Jesús Palacios, uno dei massimi esperti al mondo di adozioni internazionali: «Le adozioni saranno poche e di special needs: i nostri sistemi sono pronti per questo tipo di adozioni? O siamo fermi a interventi che erano “su misura” per determinate adozioni che oggi non esistono più?». E per le famiglie cosa non funziona? Costi e burocrazia, certo, ma soprattutto la solitudine

di Sara De Carli

Il 16 febbraio VITA ha avviato una riflessione sulla crisi del sistema adozioni internazionali ospitando un intervento molto critico di Marco Rossin, referente adozioni internazionali di Avsi, dal titolo “Adozioni internazionali, il sistema ha fallito”.

Due i punti che paiono chiari e piuttosto condivisi. Il primo snodo è la riduzione numero degli enti. Se ne parla da tempo immemore, addirittura da quando nel 2008 l’Italia viaggiava a 4mila adozioni l’anno e immaginava di arrivare a quota 10mila. Già allora noi avevamo un numero di enti autorizzati doppio rispetto ad altri paesi analoghi al nostro e in questa intervista Daniela Bacchetta, allora vicepresidente della Cai, parlava di incentivare coordinamenti e fusioni perché «ridurre il numero degli enti è uno strumento per rendere più efficace il sistema». Sono passati 14 anni e mezzo e il numero degli enti grossomodo è rimasto lo stesso, solo che i bambini adottati sono scese da 4mila l’anno a poco più di settecento. Qualche fusione si è vista, in particolare sotto la vicepresidenza di Laura Laera, ma gli enti iscritti all’albo restano tuttora più di quaranta. Realisticamente, com’è possibile che un sistema del genere sia efficiente? Quale sostenibilità economica può avere un ente che fa una manciata di adozioni l’anno, se l’adozione internazionale non è una parte della sua attività ma la sua attività pressoché esclusiva?

Il secondo snodo riguarda il considerare davvero l’adozione internazionale come uno degli strumenti possibili per la protezione dell’infanzia, ma all’interno di un sistema più ampio: una prospettiva che presuppone l’introduzione di nuove forme e nuovi strumenti. Già nell’ottobre 2018 la Commissione Adozioni Internazionali aveva organizzato un convegno sulla necessità di esplorare altri strumenti giuridici per l’accoglienza di bambini in stato di abbandono nel mondo e Laura Laera, allora vicepresidente della Cai, aveva detto che «l’adozione internazionale così come è, oggi non basta a sostenere i bisogni dei bambini. Esistono altre possibilità per rispondere al bisogno di protezione dei bambini nel mondo? Se ci sono, è nostro dovere esplorarle». La domanda era retorica, certo che ci sono altre forme di protezione possibili e modalità per dare a un minore una famiglia – per esempio l’adozione aperta, l’affido internazionale, la kafala (senza cui di fatto non si possono adottare minori di paesi musulmani), ma anche il tutore volontario, istituto diverso per finalità ma necessario a fronte di 20.089 minori non accompagnati presenti in Italia al 31 dicembre 2022 (il 25% sono ucraini), più del doppio del “picco” di 9.782 presenze del 2017 che aveva portato alla legge “Zampa” – ma sono passati quattro anni e mezzo e di “esplorazioni” non ce ne sono state: tutto il sistema è rimasto identico, fatta salva alcune modalità operative più snelle introdotte durante la pandemia per far fronte all’impossibilità di spostarsi. Insomma, “l’ecosistema” che si voleva immaginare non si è visto.

La terza sfida l’ha esplicitata con chiarezza Jesús Palacios, uno dei massimi esperti al mondo di adozioni internazionali, a dicembre 2022 nell’ambito del convegno sulle crisi adottive organizzato dalla la Commissione Adozioni Internazionali: «Non sappiamo che cosa ci riserva il futuro delle adozioni internazionali. Di sicuro però i numeri non aumenteranno e le adozioni internazionali saranno sempre più di minori con special needs», ha detto. «I nostri modelli e i nostri sistemi sono pronti per questo tipo di adozioni? Riusciamo davvero ad essere preparati, sulla base di interventi messi a punto per “vecchie” logiche e “vecchi” paesi di adozione? Serve una riflessione su interventi che erano “su misura” per determinate adozioni, che oggi non esistono più». Palacios ha lanciato anche una provocazione, sulla base della evidente necessità che anche le adozioni nazionali siano preparate con la stessa attenzione con cui fino ad oggi sono state preparate le adozioni internazionali. «Perché non immaginare una “Commissione italiana per le adozioni”, senza aggettivo? O è il sogno di uno straniero che non conosce bene il sistema delle adozioni italiano?».

Una riflessione sul sistema è certamente urgente e necessaria e al dibattito è bene che partecipino anche le famiglie. Qui pubblichiamo alcuni stralci di due interventi arrivati in redazione a seguito dell’articolo di Marco Rossin: uno di Alessandra Pritie Maria Barzaghi e uno di Ingrid Schmeiser.

«Mi ha intristito constatare il fatto che c’è voluto un calo drastico nelle richieste di adozione internazionale per far prendere coscienza di una situazione che in realtà perdura da dieci anni Come figlia adottiva degli anni Settanta, una delle prime adozioni internazionali in Italia, e poi come mamma adottiva posso dire di aver assistito a cinquant’anni di pratica adottiva in Italia», scrive Alessandra Pritie Maria Barzaghi. «Che i costi per adottare siano elevati, è risaputo. È sempre stato uno dei motivi che ha scoraggiato le coppie. Perlomeno adesso sono deducibili. Anche i tempi di attesa sono sempre stati lunghi, tuttavia essere passati da 3 a 5 anni è davvero insostenibile. Le responsabilità di questa situazione sono a tutti i livelli, è verissimo. Come mamma adottiva, ho avuto esperienza di quanto il servizio offerto dagli enti sia carente nel post-adozione, e approssimativo durante l’iter adottivo. Spesso le coppie si trovano a dover gestire da sole (e con grande carico emotivo, di tempo, energia e non da ultimo finanziario) situazioni pesanti, con minori sempre più grandi e a volte non più “recuperabili”. Ne ho conosciute tante di queste situazioni, questo è stato a lungo un argomento tabù, ma adesso si comincia a parlarne. C’è molta preoccupazione tra gli aspiranti genitori per il crescente numero dei minori adottati con bisogni speciali che vengono proposti per gli abbinamenti». Uno dei problemi maggiori dell’adozione in Italia, scrive ancora Alessandra Pritie Maria Barzaghi «è la scarsa conoscenza del bambino adottato, del suo vissuto emotivo. Le sue fatiche sono poco riconosciute e sono tuttora secondarie alle esigenze degli adulti. Nelle crisi adottive, si tende a prendere in carico solo il ragazzo e non tutta la famiglia, imputando le difficoltà alle sue caratteristiche».

Anche Ingrid Schmeiser, nella sua mail, elenca i tanti problemi esistenti: i tempi lunghi («dal deposito della domanda all’incontro con nostra figlia in India nel 2019 sono passati 5 anni. Cinque anni di alti e bassi, di crisi emotive e di scoramento»), la sensazione di abbandono (la Asl che dovrebbe accompagnare le coppie spesso ci vede come dei problemi, a noi fu esplicitamente detto: “se qualcosa poi va storto, il problema diventa nostro e non abbiamo le risorse per potervi seguire”), la burocrazia e la gestione documentale («a volte di una complicazione immotivata, dove Tribunale, Prefettura e Comuni non riescono a mettersi d’accordo nemmeno su come debbano essere scritte le autodichiarazioni»), un post adozione difficile («mia figlia ha dei problemi fisici e di ritardo evolutivo e tutte le terapie sono interamente a carico nostro, perché se aspettavamo la sanità pubblica ad oggi saremmo ancora in lista di attesa»), una scuola che «non è pronta ad accogliere un bambino adottato in età scolare, non ha idea delle problematiche e non sa poi come affrontarle né tanto meno gestirle». Soprattutto, Ingrid Schmeiser punta il dito contro la solitudine. «I percorsi di post adozione proposti non sono più al passo con i tempi e le esigenze delle famiglie e da quando poi non sono più in presenza hanno perso la loro grande forza, che è fare rete, fare gruppo. Tutto questo ricade inevitabilmente sulle famiglie, non solo con costi non indifferenti ma soprattutto con la spiacevole sensazione di essere soli. Come si può pensare che questo quadro invogli le coppie a iniziare il percorso adottivo? La pandemia, la crisi economica… è tutto vero ma il problema fondamentale è che le coppie si domandano se saranno in grado di gestire le varie problematiche pratiche legate al post adozione, pressoché da soli. E la risposta spesso è no. Francamente li capisco. Anche a costo di rinunciare al progetto di genitorialità». Ed ecco le sua conclusioni: «Tutto il mondo dell’adozione deve cambiare, a tutti i livelli e in tutti i settori, non solo in termini di burocrazia ma anche come supporto alle coppie prima e alle famiglie dopo. L’adozione di per sé è un salto nel vuoto che nessuno fa a cuor leggero, ma farlo sapendo di avere un paracadute pronto è un po’ più confortante».

Foto Unsplash


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