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Messico: l’incendio della vergogna

68 migranti si trovavano nella struttura al momento dell'incendio. La maggior parte proveniva dal Guatemala, Honduras e Venezuela, il resto da Colombia, Ecuador ed El Salvador. Una quarantina sono deceduti per le fiamme e i fumi tossici perché le guardie del sistema migratorio statale messicano di Ciudad Juárez si sono rifiutate di aprire le celle in cui erano rinchiusi, dandosi alla fuga ed avvertendo con ritardo i Pompieri, la cui sede è ad appena due minuti dal "centro di raccolta".

di Paolo Manzo

«Non siamo cani», ripete Abel Maldonado, un venezuelano, prima di recarsi in un obitorio nella speranza che suo fratello Orlando, 22 anni, sia sopravvissuto all'incendio che ha ucciso 40 persone in un centro di detenzione per migranti statale a Ciudad Juárez, in Messico, nella notte tra il 27 e il 28 marzo. Ciudad Juárez era una città tristemente nota alle cronaca una ventina di anni fa, quando diventò per prima la capitale mondiale del femminicidio, come le ragazze più carine che lavoravano nelle maquilladoras sequestrate da narcos e poliziotti corrotti, per la tratta o semplicemente per abusarle, poi le uccidevano e le loro povere ossa venivano abbandonate nel deserto.

In questa città simbolo della migrazione, separata appena un ponte da El Paso, in Texas, venne Papa Francesco, quando visitò il Messico nel 2016, per celebrare una storica messa. Abel era arrivato a Ciudad Juárez 11 giorni fa con la moglie, due figli di due e quattro anni, e Orlando, sul treno merci, anche questo tristemente noto per chi si occupa di migrazioni, detto 'la bestia’, per i carico umano ammassato, come fosse bestiame, con in testa una cosa sola: “il sogno americano". Ora suo fratello è desaparecido e non può tornare in Venezuela perché ha venduto per due lire la sua casa, la sua macchina. «Non mi è rimasto niente per arrivare qui. Chiediamo solo un po' di pazienza, comprensione perché non siamo animali, non siamo cani. Siamo esseri umani», singhiozza Abel.

Prima di essere ricoverato al Gemelli stamane Papa Francesco aveva parlato dei 40 migranti uccisi (il numero oscilla tra 39 e 41, ed il bilancio è purtroppo provvisorio, con molti migranti in terapia intensiva), chiedendo di pregare per loro. Espulsi dagli Stati Uniti grazie al Titolo 42, una misura straordinaria introdotta all’inizio della pandemia ancora in vigore anche se negli USA l’emergenza Covid è finita da un anno, i 70 migranti, quasi tutti guatemaltechi, venezuelani e honduregni, erano sotto la responsabilità del governo messicano.

Non a caso, il sacerdote e difensore dei diritti umani, Alejandro Solalinde Guerra, ha chiesto le dimissioni del capo dell'Istituto nazionale della migrazione del Messico, l'INM, Francisco Garduño Yáñez, ritenendolo responsabile della morte dei migranti nell'incendio nel centro di detenzione di Ciudad Juárez. «Yáñez deve dimettersi immediatamente perché sin dalla sua creazione, l'INM è stato gestito da agenti per lo più corrotti che hanno visto i migranti come merce, senza curarsi dei diritti e della vita delle persone», ha denunciato Solalinde oggi in un'intervista al quotidiano messicano El Universal. Il prete costantemente minacciato dai narcos si chiede «se le autorità per l'immigrazione hanno idea dello stato di stress in cui vivono i migranti da quando lasciano il loro paese, rischiando la vita percorrendo migliaia di chilometri e quando stanno per raggiungere la loro destinazione vengono arrestati, imprigionati e minacciati di deportazione». Secondo Solalinde, «questa politica è qualcosa che nessuno può più tollerare». Per questo ha proposto di sostituire l'INM con un coordinamento composto da Ministero dell'Interno, Ministero degli Affari Esteri, centri di accoglienza per migranti, accademici, Commissione messicana per l'aiuto ai rifugiati e la Guardia Nazionale. «Non possiamo permettere altre tragedie di migranti che muoiono abbandonati nei vagoni, nei rimorchi, rapiti o come questa di ieri», ha concluso.

Dal canto suo il presidente Andrés Manuel López Obrador, AMLO come lo chiamano tutti, ieri ha parlato di una rivolta ma i migranti lo hanno smentito. Di certo, le guardie non hanno aperto le porte come potete vedere qui. Secondo quanto riferito ai media ieri da AMLO, l'incendio sarebbe stato causato dagli stessi migranti dopo avere saputo che sarebbero stati trasferiti nel sud del Messico. I migranti contestano però la versione ufficiale del presidente condivisa dall'INM, che li aveva in "custodia". La domanda che si stanno ponendo i migranti è: se sono stati spogliati di tutti i loro averi prima della reclusione, come è possibile che qualcuno sia riuscito ad avere un accendino? Altro dato: la caserma dei pompieri di Ciudad Juárez è a due minuti di distanza dal luogo della tragedia, ma l’allarme è stato dato con ritardo, un secondo elemento che indica una omissione di soccorso dolosa. Per non ripetere l’elemento più scioccante, evidenziato dal video diffuso dai media messicani: quando hanno chiesto disperatamente aiuto, con le fiamme alle loro spalle, perché erano tutti tenuti sotto chiave in una cella nessuna delle guardie ha aperto loro le porte.


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