Francesco Pirone

«Mezzogiorno: pubblico, privato e Terzo settore devono lavorare insieme, senza gerarchie»

di Anna Spena

1,6 milioni di giovani in meno in 25 anni e l’economia che cresce quattro volte di meno rispetto alla media nazionale. «La condizione di perifericità in cui sta scivolando il Mezzogiorno», spiega Francesco Pirone, professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Napoli Federico II, «dipende anche dalla rottura dei legami di solidarietà nazionali. Bisogna guardare ai temi dello sviluppo in maniera plurale. Pubblico, privato e terzo settore devono costruire insieme una visione condivisa su obiettivi chiave per la qualità della vita e la crescita inclusiva e sostenibile»

Il Prodotto Interno Lordo del Sud Italia in poco più di venti anni è sceso dal 24% al 22%. La popolazione passa dal 36,3% al 33,8%. Nel Mezzogiorno si registra un crollo: rispetto al 1995, mancano nel Sud oltre 1,6 milioni di giovani. Questi numeri sono elaborazioni dell’Ufficio Studi di Coonfcommercio su dati Istat. E fotografano una realtà in veloce declino. Ma come fare per invertire la rotta? Lo abbiamo chiesto a Francesco Pirone, professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Napoli Federico II.

Professore, partiamo da un primo dato emblematico: nel Sud Italia in soli 25 anni si registrano 1,6 milioni di giovani in meno
Questi dati mettono in evidenza due aspetti problematici, noti agli studiosi, ma che è bene riportare all’attenzione del dibattito pubblico. Il primo aspetto è di tipo demografico, il secondo di tipo economico e guarda agli indicatori chiave dell’occupazione, della crescita e della produttività. Ma andiamo per ordine. La riduzione dei giovani è dovuta a due fattori: la riduzione del tasso di natalità e il saldo migratorio negativo.

​Il Mezzogiorno perde popolazione giovane perché si riducono le nascite, perché i giovani emigrano eperché questi territori non sono in grado di attirare equivalenti flussi in ingresso. Sulla riduzione della natalità c’è poco da fare nel breve periodo. Quello su cui invece si può intervenire subito è la gestione dei flussi migratori. Le domande da farci sono:

"cosa spinge ad andare via?" e "come rende un territorio attrattivo?". Le risposte in parte potrebbero coincidere e riguardano tutte quelle condizioni sociali che consentono a ognuno di avere la speranza di vivere la vita che desidera. Ricordiamoci poi che il Mezzogiorno è attraversato da flussi migratori in ingresso che potrebbero essere gestiti in una prospettiva virtuosa, di maggiore apertura e inclusione, non soltanto per doverosa solidarietà, ma anche per rivitalizzare la demografia, la società e l’economia. Ma le politiche migratorie di chiusura e i limiti complessivi del sistema di accoglienza non consentono di cogliere questa opportunità. Invece, i flussi migratori sarebbero per noi una risorsa, anche uno spazio per immaginare un’altra prospettiva sociale a cominciare da contrasto all’invecchiamento demografico.

Ma l’aspetto della denatalità non è da sottovalutare
No, è l’indicatore di una cultura generale avversa alla genitorialitàche si combina con aspetti istituzionali che scoraggiano la natalità, a cominciare dai meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro e della cultura stessa del lavoro, che penalizza soprattutto le donne, a passare poi ai limiti dei servizi di cura, di assistenza socio-sanitaria, scolastici, ricreativi che disincentivano l’esperienza della procreazione. La struttura familista del welfare, così com’è adesso, non sostiene adeguatamente la genitorialità. Non c’è sufficiente sensibilità sul tema dell’infanzia, sulla necessità di sviluppare programmi avanzati di conciliazione vita-lavoro per i genitori. Questo tipo di ragionamento, che guarda alla cultura sociale del Paese e al suo orientamento alla genitorialità, richiede iniziative di sistema, plurali e di lungo periodo che devono puntare alla defamilizzazione e a liberare le donne che sono caricate in misura maggiore della cura dei minori e hanno maggiori fragilità nel mercato del lavoro meridionale.

Intanto l’occupazione nel Mezzogiorno è cresciuta 4 volte più lenta della media nazionale: 4,1% contro il 16,4%. Perchè?
Il tema è storico. E dipende dalla struttura produttiva del Mezzogiorno. Nel periodo considero, si registrano gli effetti del modo in cui il Mezzogiorno è entrato nei processi di globalizzazione, ha affrontato l’allargamento ad Est dell’Unione europea, processi che hanno messo in evidenza le debolezze strutturali delle economie meridionali. Le politiche pubbliche, intanto, prima con la “regionalizzazione” che ha seguito la modifica del Titolo V della Costituzione del 2001, poi con le politiche di austerity degli ultimi dieci anni, hanno non solo trascurato il tema dello sviluppo del Mezzogiorno, ma hanno anche ridotto e riorientato la spesa pubblica in altre direzioni. Nelle condizioni attuali, non è realistica una rapida inversione di tendenza. Bisogna, invece, ragionare su una prospettiva di sviluppo di medio-periodo, una visione condivisa su obiettivi chiave per la qualità della vita e la crescita inclusiva e sostenibile, partendo da una prospettiva plurale dell’economia. Da un lato bisogna certamente attirare investimenti internazionali e sostenere l’imprenditorialità privata, ma dall’altro bisogna riabilitare l’intervento pubblico che deve essere ripensato in maniera efficiente e in più stretta relazione con il Terzo Settore che può contribuire in maniera significativa agli obiettivi di sviluppo sostenibile, ma soprattutto a colmare i divari di cittadinanza che oggi segnano il rapporto tra Nord e Sud del Paese.

In che senso?
Demografia, economia, cittadinanza e diritti sono tutti temi collegati tra loro. Dobbiamo fare uno sforzo per produrre un pensiero in grado di tenerli insieme in un progetto di sviluppo coerente con il mondo contemporaneo. Per questo pubblico, privato e Terzo settore devono pensarsi insieme, senza gerarchie,per immaginare una prospettiva di qualificazione e di crescita della società e dell’economia meridionale all’altezza delle sfide del nostro tempo che è in rapida trasformazione. È prioritario partire dall’economia fondamentale, dalla cura delle persone e dell’ambiente, tenendo al centro i diritti di cittadinanza sanciti costituzionalmente. Bisogna, poi, far attenzione anche al fatto che la condizione di perifericità in cui sta scivolando il Mezzogiorno è anche causata dalla relazionale con le aree forti del Paese che oggi è chiaramente segnata dalla rottura dei legami di solidarietà nazionali. Pensiamo a come si è realizzata la “regionalizzazione”, allo sdoganamento degli egoismi territoriali, ai meccanismi distorti di redistribuzione pubblica. Per liberare il Mezzogiorno è necessario abbandonare questa via e orientare gli attori pubblici verso relazioni territoriali più solidali.


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