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Franco Cioffi

Io, manager di prossimità, al servizio dell’economia sociale

di Maria Pia Tucci

«La crescita di un Paese, dipende da diverse variabili tutte riconducibili ad un unico obiettivo: generare una sana economia per garantire civiltà, benessere ed equità sociale ai suoi abitanti».Franco Cioffi è un economista ed è il founder della prima Scuola d’ Impresa diffusa del meridione d’Italia

Franco Cioffi è un economista dello sviluppo, allievo prima e collaboratore dopo dello storico del pensiero economico Luca Meldolesi.

Da temporary manager e direttore generale di piccole e medie imprese, Franco Cioffi è oggi un manager di prossimità e della complessità.

Fondatore, a Pozzuoli (NA), con il sostegno della Fondazione Banco di Napoli per l’Assistenza all’Infanzia (FBNAI), nel 2018, della prima Scuola d’impresa diffusa del mezzogiorno e che al Sud guarda con l’occhio dell’ innovazione alle politiche economiche per lo sviluppo integrato.

Percorsi d’impresa che hanno contribuito a rivitalizzare anche spaccati urbani rimasti per lungo tempo inutilizzati, vedi la base NATO di Bagnoli, dove sono stati avviati i primi corsi ora spazio “oltre il co-working” Nato Lavoratorio o la valorizzazione di beni confiscati come Villa Fernandes, a Portici (NA) divenuto incubatore d’impresa, oltre che a fucina di talenti locali. Così come l’ aver accompagnato l’implementazione produttiva e le strategie commerciali della cooperativa Pietra di Scarto di Cerignola (Fg).

Ma chi è e cosa fa un manager di prossimità?

Il manager di prossimità (nel mio caso anche della complessità) è un professionista che si occupa di strutturare ed aiutare a crescere le piccole e medie imprese profit e sociali al fine di renderle competitive nel mercato globale con un approccio sul campo e quindi dal basso.

Questo presuppone, da parte del manager di prossimità, possedere competenze ed esperienze aziendalistiche multidisciplinari ed una visione anche da economista dello sviluppo perché la crescita di un Paese, dipende da diverse variabili tutte riconducibili ad un unico obiettivo: generare una sana economia per garantire civiltà, benessere ed equità sociale ai suoi abitanti.

Perché questa scelta?

Ho trascorso diversi anni a cercare di rianimare o lanciare aziende, ma, anche, a formare imprenditori, manager, dipendenti e giovani con un occhio da aziendalista e l’altro da economista, sperimentando sul campo un modello formativo a cavallo tra economico, aziendale e sociale finalizzato a valorizzare menti/talenti e a forgiare coscienze civiche.

Un approccio che si fonda su uno stile di direzione partecipativo finalizzato a elevare i gradi civici e libertà individuali.

Questo ha significato iniettare cultura d’impresa ma, anche, favorire una diversa mentalità: più proiettata all’autoimprenditorialità (nel senso più ampio della parola) che alla dipendenza/assistenza.

Questi esercizi pratici sono stati, tra l’altro, utili per sperimentare sul campo alcuni concetti teorici dei massimi esponenti della corrente di pensiero del possibilismo come Albert Otto Hirschman, Eugenio Colorni e Luca Meldolesi, a cui mi ispiro.

Esperienze che hanno fatto evolvere costantemente il mio pensiero rafforzando in me la convinzione che la validità di una teoria si misura sulla base dell’effettivo riscontro pratico della stessa, e che l’esercizio sul campo è a sua volta funzionale e indispensabile all’evoluzione della teoria stessa.

Qual è e quale potrebbe essere l’impatto al Sud di una strutturazione aziendale, profit e non, vista con la lente di una figura professionale che si posiziona tra un aziendalista/ economista e agente di sviluppo locale?

Un ruolo importante in questa fase storica del terzo settore nel Mezzogiorno d’Italia è svolto dalle Fondazioni e da Banca Etica che finanziano (molto spesso con capitali a fondo perduto) le riorganizzazioni e l’avvio di diverse imprese sociali.

Questo avviene attraverso bandi di progettazione (è il caso delle fondazioni) o con la concessione di prestiti e/o con l’apertura di linee di credito (è il caso di Banca Etica).

Dal mio osservatorio privilegiato sul campo operativo ritengo, ci sia ancora molto da fare per evitare che, nel tempo, questi aiuti possano tramutarsi in una forma mascherata di assistenzialismo diffuso.

La maggior parte degli enti del terzo settore, laddove ci riescono, raggiungono la parità del conto economico annuale solo ricorrendo stabilmente a fondi erogati dalle fondazioni mediante la partecipazione a bandi di progettazione.

Ho stimato che mediamente la percentuale di tali ricavi oscilla tra il 30 e il 40 per cento del volume d’affari complessivo annuale di ciascuna organizzazione.

Il coinvolgimento attivo di soggetti istituzionalmente deputati anche a tale ruolo (come ad esempio banche e fondazioni) potrebbe contribuire a colmare questo deficit organizzativo mediante un supporto tendente più ad “accompagnare” (tutoraggio e formazione sul campo) che ad “aiutare” (credito, finanziamenti a fondo perduto o cofinanziamenti) le imprese sociali nei loro percorsi di sviluppo e consolidamento.

Questo cosa potrebbe presupporre?

Questo presupporrebbe l’adozione di criteri diversi e più selettivi nella valutazione dei progetti e dell’erogazione di fondi e credito alle imprese sociali.

Bisognerebbe privilegiare, a parità di requisiti etico sociali, quei progetti imprenditoriali in grado di assicurare i più alti moltiplicatori in termini economici, occupazionali e d’impatto sociale.

Dal suo punto di vista, come sono cambiati (se sono cambiati) i processi nel mondo del Terzo Settore?

Il terzo settore negli ultimi anni ha subìto delle profonde trasformazioni, soprattutto a seguito delle mutate politiche del welfare adottate dai governi che si sono succeduti e dalla recente riforma introdotta dal legislatore.

Le cooperative/associazioni no profit si sono ritrovate impreparate a fronteggiare una situazione inedita: predisporsi e imparare a stare su un mercato (quasi) libero.

E non tutte le organizzazioni del terzo settore sono in grado di saper fare azienda e stare sul libero mercato, per la scarsa cultura d’impresa, assenza di abilità manageriali e carenza di sistemi di contabilità e controllo di gestione interni.

Inoltre, gli enti del terzo settore, sono organizzazioni “orizzontali” dove l’eccessiva democrazia partecipativa interna mina la crescita, mortificando il talento di alcune individualità.

Gli imprenditori sociali hanno quindi bisogno soprattutto di formazione sul campo e le organizzazioni di strumenti tecnici di ausilio alla gestione aziendale come piattaforme gestionali e sistemi di controllo gestione.

Spesso si dà erroneamente per scontato che l’imprenditoria è “un’erba spontanea” che cresce e si espande in maniera naturale e che sono sufficienti solo idee e finanza.

È evidente, invece, che trattasi di processi che vanno stimolati, accompagnati e orientati verso le migliori pratiche, tenuto conto che qualsiasi organizzazione risente della mano di chi la pensa e la governa.

A questo proposito, lei è fondatore della prima Scuola d’Impresa Diffusa. Come nasce ?

Negli anni ho accompagnato diverse imprese profit e sociali nei loro percorsi di sviluppo così come ho formato centinaia di manager, professionisti ed imprenditori.

Attività che, nel tempo, si sono naturalmente canalizzate in un progetto di sviluppo civico ed economico integrato, finalizzato a diffondere cultura d’impresa nei territori, per migliorarne la competitività e aumentare i livelli occupazionali, è nata così la Scuola d’impresa diffusa.

Un progetto ampio, profondo, non codificato (ma governato) che si evolve costantemente moltiplicando e diffondendo le matrici formative nel frattempo individuate e predisposte al ruolo.

Una rivoluzione che non ha confini geografici, di settore e di competenze, ma un unico obiettivo: provare a incivilire il Mezzogiorno d’Italia con politiche dal basso.

Tutti gli attori a vario titolo protagonisti di questa azione civica formativa sono consapevoli che il ritorno dell’investimento individuale è dato dal miglioramento della vita pubblica di comunità.

Ma sono soprattutto coscienziosi che l’agente del cambiamento, per essere tale, deve fare un grosso lavoro di introspezione, rilevare e analizzare i limiti personali, e tendere a migliorarsi costantemente con un approccio da “mano che nasconde”, cioè con un approccio umile e senza pregiudizi di sorta. Una rete di persone variegata (imprenditori, manager, cooperatori, dirigenti pubblici, giovani ecc.) che, nel tempo, si è ingrossato come un fiume in piena e, tracimando, sedimenta quotidianamente di saperi ed esperienze il territorio circostante.

Le parole d’ordine sono: etica, auto sovversione, formazione continua e trasferimento di competenze. Persone che si riconoscono in valori condivisi e che privilegiano rapporti privati e professionali per contaminarsi propositivamente.

A seguito di questo sono nate collaborazioni professionali, rapporti commerciali e di sinergia tra imprenditori, stage e assunzioni di giovani presso le imprese partner ecc. In sintesi è sbocciata un’economia circolare, aperta e inclusiva.

Quante aziende segue? Il cambiamento auspicato e previsto si sta generando nei territori?

Oggi i corsi di formazione organizzati da Scuola d’impresa diffusa si sono moltiplicati e sono diventati sette, per rispondere meglio alla domanda dei discenti e rendere l’offerta formativa costantemente allineata al mercato del lavoro.

Così come sono anche cresciuti i partner istituzionali, diventati venticinque, e gli allievi, che hanno superato le mille unità.

Un modello formativo che poggia in modo perfettamente equilibrato sulle basi delle nozioni, ma anche delle esperienze pratiche.


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