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Veronica Donatello

La santità non si misura con il QI

di Sara De Carli

Due eventi in pochi giorni: un libro per riflettere sul rapporto tra fede e disabilità e il primo convegno nazionale sulle persone con disabilità nella Chiesa. Per andare oltre il "noi e loro". Per superare gli stereotipi. Per passare dall'inclusione all'appartenenza. Intervista alla responsabile del Servizio Nazionale per le persone con disabilità della Cei

Abruzzese d'origine, classe 1974, suor Veronica Amata Donatello è una Coda, l’acronimo che ha dato titolo al film che ha sbancato gli Oscar del 2022. “Coda” sta per child of deaf adults e indica i figli di genitori sordi. Suor Veronica è responsabile per la Conferenza Episcopale Italiana del Servizio Nazionale per le persone con disabilità e nel 2016 il Presidente Sergio Mattarella l’ha nominata Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana proprio per il suo contributo nella piena inclusione delle persone con disabilità. È lei, spesso, ad affiancare Papa Francesco per tradurre le sue parole nella Lingua italiana dei Segni, che lei ha appreso sin da bambina.

Giovedì 19 maggio suor Veronica interverrà alla presentazione del libro “A sua immagine? Figli di Dio con disabilità!” a cura di Alberto Fontana e Giovanni Merlo (qui le indicazioni per seguire l’evento in streaming). Il volume traduce per il pubblico italiano un saggio del 2020 di Justin Glyn, gesuita, docente di Diritto canonico al Catholic Theological College di Melbourne, ipovedente, dal titolo «“Noi”, non “loro”: la disabilità nella Chiesa» che faceva i conti con le posizioni tradizionali della Chiesa cattolica sulla disabilità e invitava a superare l’idea che la virtù sia nel «prendersi cura» delle persone con disabilità, riducendole di fatto a mero «oggetto di cura». Fontana e Merlo («non ci saremmo mai aspettati di pubblicare un saggio di teologia», scrivono gli autori) hanno raccolto quindi i contributi di diverse persone – con storie e profili diversi tra loro – per riflettere sul rapporto tra fede e disabilità: un libro che non vuole dare risposte ma aprire ad ulteriori interrogativi e considerazioni, fondamentali nella costruzione di una nuova cultura della disabilità. Oltre al libro, c'è un blog. La direzione Papa Francesco l’ha indicata chiaramente, sia nel contestare la cultura dello scarto sia nei suoi messaggi, uno per tutti quello in occasione dell’ultima Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità dove ha detto che «la Chiesa vi ama e ha bisogno di ognuno di voi per compiere la sua missione al servizio del Vangelo».

Suor Veronica, come la Chiesa oggi guarda alla disabilità? Cosa è cambiato rispetto alle tradizionali posizioni dualistiche “la disabilità è una punizione” e “la disabilità è una benedizione”?
Justin Glyn sarà presente anche al nostro convegno del 3-4 giugno, il 1° Convegno Nazionale sulle persone con disabilità nella Chiesa, dal titolo «"Noi", non "Loro"». Cos’è cambiato? Nella Chiesa ancora in tanti casi – specie quando le disabilità sono complesse o sono intellettive, quindi nel mondo dei disturbi del neurosviluppo e della pluridisabilità – si fa fatica a stare davanti al limite dell’altro, perché il limite dell’altro rimanda al nostro limite. A volte anche nella Chiesa, specialmente in chi ha ruoli di responsabilità e di organizzazione permane il pregiudizio, direi l'ignoranza di pensare che l’unico accesso alle vie della fede sia l’intelletto. Abbiamo “cognitivizzato” la fede, come già scrisse papa Benedetto nella Lumen fidei, abbiamo dato tutto il potere a un senso solo. Ma uno dei compiti a cui la Chiesa è chiamata in questo tempo, se vuole essere profezia, è lavorare sull’accompagnamento spirituale formando il clero e gli operatori pastorali ad accompagnare spiritualmente le persone. Accompagnare non solo nelle nozioni ma ad una vita spirituale di fede, nelle varie età della vita. Questo vale in generale e non sempre accade, ma diventa ancora più importante quando c’è una disabilità complessa, per cui a volte non si va oltre i sacramenti. È questa la sfida, andare oltre i sacramenti, oltre lo scivolo, per accorgersi che esiste un volto, esiste una persona che – come dice sant’Agostino – ha la stessa sete e la stessa nostalgia di Dio che hanno tutti. Quindi sicuramente più si lavora ad una presenza ordinaria, nelle varie età della vita, delle persone con disabilità nella Chiesa, una presenza che diventi una partecipazione, che diventi anche riconoscere a loro una ministerialità, dei talenti e in cui si passa sempre più alla loro partecipazione… ecco che piano piano si potrà cambiare lo sguardo e lavorare su questi pregiudizi che a volte vive ancora sia chi ha ruoli di responsabilità sia le stesse famiglie, perchè non è facile lasciarsi provocare da un figlio che cresce e che esce fuori – anche nella disabilità – da alcuni stereotipi.

Molti ancora ritengono che persone con una disabilità intellettiva grave non abbiano la complessità di una vita interiore, anche spirituale. In un'intervista al contrario lei ha ricordato che «ognuno ha una porta per cui Cristo entra». Ha un ricordo particolare che ci faccia cogliere che «l'anima non è mai disabile»?
Moltissimi. Io ho appreso la fede dalle persone con disabilità e la vivo con loro e chi come me ha il dono di camminare con loro si rende conto che sono grandi maestri. Un po’ come santa Teresina, che non era dotta eppure è una santa della chiesa. Ora ce lo dice anche santa Margherita da Città di Castello, cieca e pluridisabile: c’è una santità possibile che non richiede un quoziente intellettivo per forza nella norma.

Uno dei compiti a cui la Chiesa è chiamata in questo tempo, se vuole essere profezia, è lavorare sull’accompagnamento spirituale. Accompagnare non solo nelle nozioni ma ad una vita spirituale di fede, nelle varie età della vita. Questo diventa ancora più importante quando c’è una disabilità complessa, per cui a volte non si va oltre i sacramenti. È questa la sfida, andare oltre i sacramenti, per accorgersi che esiste una persona che – come dice sant’Agostino – ha la stessa sete e la stessa nostalgia di Dio che hanno tutti.

suor Veronica Amata Donatello

Che percorso si sta facendo per valorizzare la presenza delle persone con disabilità nella comunità parrocchiale, per passare dall’inclusione all’appartenenza?
Negli ultimi trent'anni la Chiesa italiana ha lavorato molto su quel pregiudizio religioso che dicevamo prima e sull’accesso ai sacramenti nelle persone con disabilità intellettiva complessa, ma la novità degli ultimi anni è che si sta lavorando su tutti gli ambiti di vita. Potremmo dire che la riflessione nell'ambito della catechesi ha provocato altre istanze e consapevolezze. Per esempio insieme alla pastorale familiare stiamo lavorando con coppie con disabilità e con genitori con figli con disabilità. Stiamo lavorando sull’affettività, sulle transizioni della vita, nell’area del lavoro con varie cooperative ecclesiali e con le congregazioni, sull’alternanza scuola lavoro, con gli oratori e sulla dimensione del gioco, dello sport e del tempo libero perché tutti devono avere diritto al bello, al gioco, allo svago. Stiamo lavorando anche nella ricerca scientifica, stiamo formando giovani studenti. Lavoriamo con tanti uffici, perché la disabilità è trasversale e nessuno può sentirsi escluso da questo impegno. Ci lasciamo provocare, nascono tavoli di lavoro che piano piano maturano vari passaggi. E la cosa interessante è che sempre più questo percorso si fa con loro.Questo della partecipazione è un elemento molto importante, perché come dice papa Francesco nelle nostre comunità le persone con disabilità a volte esistono ma ancora non appartengono, non partecipano.

Ci lasciamo provocare, nascono tavoli di lavoro che piano piano maturano vari passaggi. E la cosa interessante è che sempre più questo percorso si fa con loro. Questo della partecipazione è un elemento molto importante, perché come dice papa Francesco nelle nostre comunità le persone con disabilità a volte esistono ma ancora non appartengono, non partecipano.

Perché poi in realtà nelle comunità parrocchiali non è così scontato trovare ambienti accoglienti? E per frequentare il Grest si chiede che ci sia un educatore professionale pagato dalla famiglia, accanto al bambino, come se la relazione con loro dovesse sempre essere mediata da un professionista e non potesse essere, semplicemente, la relazione tra persone?
A volte nei nostri luoghi parrocchiali si delega ancora il tema della disabilità al mondo associativo, alle congregazioni, ai movimenti – “ci pensano loro” – con il rischio di una chiusura, perché associazioni, movimenti e congregazioni non sempre sono aperti e non sempre diventano luogo profetico e di apprendistato per tutti, per capire tutti come si può lavorare con le persone con disabilità. Sempre più siamo chiamati a lavorare insieme. Devo dire che con gli oratori e con il mondo dello sport stiamo lavorando moltissimo, certo a macchia di leopardo: in alcuni luoghi ci sono esperienze che coinvolgono tutti, dai bambini agli adulti e in altri luoghi l’oratorio manca per tutti. La presenza delle persone con disabilità sempre più diventerà ordinaria. Se si accompagno le persone e le famiglie e si spende nella formazione, sicuramente in alcuni casi serviranno dei professionisti ma spesso basterà avere educatori normali, di buona volontà, che conoscano più linguaggi perché hanno fatto dei corsi di pedagogia inclusiva e sui linguaggi inclusivi.

Cosa può fare ciascuno di noi per contribuire al cambio di sguardo?
Il contributo che ognuno di noi può fare è uscire dalla pastorale del proprio recinto. Fare rete è l’unica chance, sostenere progetti comuni, a livello ecclesiale e sociale, per permettere la piena autonomia e la partecipazione attiva delle persone con disabilità.


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