Beranard Dika

Bugie ai prof per rinnovare il permesso di soggiorno

di Veronica Rossi

Il delegato alle Politiche giovanili di Regione Toscana è un 24enne di origine albanese, arrivato in Italia da piccolo. Per spiegare il suo favore allo Ius Scholae ricorda quando, per la vergogna, non voleva raccontare a scuola che andava in Questura per i documenti. Oggi sogna una società che diventi "comunità educante". E sui giovani dice: "Ascoltateli e non giudicateli"

Di giovani, anche nei Palazzi della politica, si parla molto. Spesso, tuttavia, nel dibattito manca proprio la voce di coloro che ne dovrebbero essere i protagonisti. Ora più che mai, in un momento storico in cui pandemia prima e guerra poi hanno avvolto il futuro con una coltre di incertezza, i ragazzi andrebbero sostenuti e, soprattutto, ascoltati. In Toscana, chi si occupa di Politiche giovanili è il consigliere del presidente Eugenio Giani, il 24enne Bernard Dika. Un giovane che si occupa di giovani e che certamente offre alle istituzioni uno sguardo privilegiato, perché dall'interno, sulle nuove generazioni.

Consigliere, partiamo da un dato anagrafico. Lei è nato nel 1998: In cosa questo può esserle d’aiuto nello svolgimento dei suoi compiti istituzionali?

Posso portare il punto di vista dei miei coetanei sui cambiamenti della società; troppo spesso vediamo task force sui giovani in cui però i giovani non sono affatto rappresentati. Contemporaneamente, però, sento una grande responsabilità: devo lavorare bene perché rappresento le nuove generazioni. Non voglio alimentare in alcun modo il pregiudizio secondo il quale i ragazzi, quando hanno una possibilità concreta di azione, non si impegnano seriamente. Mi piacerebbe anche sfatare la retorica secondo la quale i giovani sono il futuro.

In che senso?

I giovani devono raggiungere il futuro, certamente, ma devono farlo nel presente, che è l’unico tempo che abbiamo a disposizione per rendere il domani meno incerto. Dire che i ragazzi sono il futuro rischia di relegare la loro azione in un momento che non esiste ancora e quindi di escluderli. In Regione Toscana cerchiamo di costruire le politiche sulle nuove generazioni con le nuove generazioni, attraverso il progetto GiovaniSì.

In che cosa consiste?

Si tratta di un progetto che la Regione porta avanti da 11 anni, ma che rimane ancora innovativo, una delle poche esperienze di questo tipo in Europa. Permette alle istituzioni di raggiungere i giovani con un unico canale. Mi spiego: se un ragazzo vuole cercare delle opportunità lavorative o di studio piuttosto che informazioni sull’abitare, di solito deve andare nelle singole pagine internet dedicate ai diversi argomenti. Noi invece abbiamo ribaltato questo approccio e l’abbiamo reso unitario: in un solo sito, che poi è collegato ai social più diffusi, ci sono tutte le opportunità mirate a rendere le nuove generazioni più autonome. Molti mi chiedono, quando sanno della mia delega alle Politiche giovanili, se mi occupo di svago e di partecipazione. Ma non si tratta solo di questo: certo, mi impegno a stimolare la partecipazione, ma mi dedico anche ai tirocini, al lavoro, alla nascita di nuove imprese, ai corsi di formazione e alle borse di studio universitarie, cioè a tutto ciò che serve per l’indipendenza economica e di vita.

I giovani li ascoltate?

Abbiamo un tavolo di lavoro che riunisce tutte le realtà dove i giovani vivono e si impegnano, come Confindustria giovani, ma anche la Caritas, la Croce Rossa e l'Associazioni di dottorandi; assieme a loro costruiamo le nuove politiche e rivediamo quelle che già implementiamo, in modo che siano sempre adeguate ai bisogni dei ragazzi. Oltre a questo, facciamo anche un lavoro di presenza sul territorio: quest’anno, per esempio, da febbraio a giugno abbiamo incontrato i 600 rappresentanti degli studenti degli istituti superiori della Toscana. Abbiamo ascoltato i loro bisogni e cercato di dare risposte concrete, grazie alla presenza, accanto alla componente istituzionale, dei tecnici della Regione, che sono coloro che possono spiegare come dare gambe alle idee e alle proposte dei giovani.

Secondo la sua esperienza e secondo quanto ha ascoltato in questi mesi, quali sono le esigenze più pressanti dei giovani?

I giovani chiedono di essere ascoltati senza venir giudicati. La nostra società, infatti, fa sentire spesso sotto esame i ragazzi; basti pensare alle pressioni dei genitori, che riversano sui figli tutta una serie di aspirazioni che in realtà sono loro. Noi stiamo lavorando invece per offrire opportunità concrete che tendano la mano alle nuove generazioni, che devono sentirsi orgogliose di costruirsi un’indipendenza al di fuori del nucleo familiare. Questo significa promuovere l’università e le borse di studio per permettere a tutti di raggiungere, a prescindere dalla condizione economica di partenza, il grado più alto di istruzione, ma anche sostenere quei giovani dai 15 ai 29 anni che non studiano, non lavorano e non cercano un impiego, che in Toscana sono il 13%. Non le nascondo che è un mio assillo, vorrei dare un aiuto concreto ai ragazzi che si sentono sbagliati ed esclusi.

E i giovani che vivono un disagio, con l’incertezza dovuta alla pandemia prima e alla guerra poi, sono sicuramente aumentati.

Sicuramente, c’è un grosso disagio di cui dobbiamo farci carico. Non vorrei risultare retorico, ma si tratta davvero di un lavoro di squadra che la Regione non può fare da sola. C’è un termine che trovo bellissimo che è “Comunità educante”. Tutta la società nel suo insieme, tra cui istituzioni, docenti, genitori e Terzo Settore, deve sostenere i giovani nel loro percorso di crescita e indirizzarli verso la strada migliore per ciascuno di loro.

Quali azioni concrete mettete in campo per sostenere i ragazzi più in difficoltà?

Promuoviamo corsi triennali di formazione professionale e percorsi di studio di diverso tipo, come gli Istituti tecnici superiori, che in due anni forniscono una preparazione altamente qualificata per entrare nel mondo del lavoro. Ci sono anche giovani che non hanno la predisposizione per un percorso universitario, che non possono essere abbandonati. Un paio di mesi fa ho visitato una vigna, dove ho conosciuto due adolescenti che hanno avuto il coraggio di ammettere che non sarebbero riusciti a portare a termine una scuola superiore e quindi hanno intrapreso un corso professionalizzante in agricoltura. Ho chiesto dei dati ai docenti sull’impiego degli alunni che hanno terminato il percorso gli scorsi anni e loro mi hanno raccontato che da poco le aziende agricole del territorio li avevano chiamati perché avevano bisogno di operatori per i loro campi. I tutor, quindi, avevano provato a chiamare gli ex allievi, ma nessuno si era detto disponibile. Non perché i giovani, come si sente dire spesso, non avessero voglia di lavorare, ma perché lavoravano già tutti e alcuni avevano addirittura aperto in prima persona un’azienda.

Sui media ultimamente si parla molto di datori di lavoro che non trovano dipendenti. E si pensa a giovani che rinunciano.

Sicuramente esistono situazioni in cui le condizioni economiche e di lavoro non corrispondono alle esigenze dei possibili dipendenti, ma, al di là del dibattito che si è creato, penso che sia necessario far incontrare domanda e offerta. Ritengo che le istituzioni debbano dialogare con le aziende e le realtà economiche del territorio, chiedendogli quali professionalità mancano oggi e quali mancheranno tra qualche anno, in modo da poter organizzare al meglio la formazione delle prossime generazioni.

Lei è nato in Albania ed è arrivato in Italia da piccolissimo. Questo può aiutarla a comprendere meglio le difficoltà che alcuni giovani attraversano?

Assolutamente. Ho vissuto per 17 anni in questo Paese senza essere riconosciuto come cittadino italiano. Il che ha significato, per esempio, che io periodicamente dovevo assentarmi da scuola per andare a far la fila all’Ufficio immigrazione per rinnovare il permesso di soggiorno. Io me ne vergognavo e dicevo ai miei compagni e agli insegnanti di avere una visita medica. Questo mi fa pensare a tutti quei ragazzi ben inseriti sul territorio, che magari parlano dialetto e tifano la squadra locale, ma che, se per caso devono attraversare il confine per andare in gita, poniamo, nel sud della Francia, non possono far semplicemente firmare il permesso dai genitori, ma sono tenuti a fare domanda in consolato. Ci sono tutta una serie di storture, che possono essere sanate premiando chi è ben integrato e chi ha affrontato il suo percorso di crescita e di studi in Italia. Per questo motivo non posso che essere d’accordo con lo ius scholae, in discussione proprio in questi giorni.


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