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Federico Batini

Contro l’abbandono scolastico, vi leggo una storia

di Sara De Carli

Primo, la dispersione scolastica non sono solo gli abbandoni. Secondo, per vincere la sfida servono sì azioni mirate per alcuni ma anche azioni preventive per tutti. Terzo, l'aggettivo "scolastica" chiama in causa per prima la scuola. Ecco così una possibile strada: leggere storie in classe, ad alta voce, anche a ragazzi grandi. La ricerca dimostra che in tre mesi si hanno già i primi risultati

Leggere ad alta voce incidere significativamente, in differenti fasce di età, su dimensioni strategiche per il successo formativo. Bastano tre mesi, per vedere dei risultati su funzioni cognitive di base, attenzione, memoria fcomprensione del testo orale e scritto, competenze emotive. Lo dice la ricerca evidenc based. Perché non ripartire da qui per combattere la dispersione scolastica? Che certamente è multifattoriale, ma in quell'aggettivo dice il suo legame indissolubile con la scuola, sia come luogo in cui la "tentazione" all'abbandono nasce sia come soggetto che può – e costituzionalmente deve – adoperarsi per porvi rimedio e per prevenirla. Federico Batini, professore di Pedagogia Sperimentale, Metodologia della Ricerca e Metodi e tecniche della valutazione scolastica presso l’Università degli Studi di Perugia, ci lavora da anni per esempio con il progetto Leggere:forte (il 29 settembre verranno presentati i risultati dei primi tre anni di ricerca) e con il master su orientamento narrativo e prevenzione della dispersione scolastica. A inizio dicembre la sua Università ospiterà il primo convegno scientifico internazionale sulla "lettura ad alta voce condivisa". Batini è una delle voci che abbiamo interpellato nel numero di VITA dedicato alla scuola e all'urgenza di un intevento di sistema per contrastare la dispersione scolastica, acquistabile in edicola e online su vita.it.

Professore, quali sono le prime tre cose da evidenziare, parlando di dispersione scolastica?

Il primo tema è di denominazione: dobbiamo decidere come contabilizzarla, perchè usare definizioni e misure diverse non aiuta. La dispersione scolastica concretamente è la somma di tre cose: ripetenze, abbandoni formalizzati e non frequenze. Invece troppo spesso si parla solo di abbandoni, trascurando il fatto che gli abbandoni contano solo i ragazzi che vanno in segreteria con entrambi i genitori a firmare una formale rinuncia. Per esempio durante il Covid gli abbandoni formali sono ovviamente diminuiti, ma in molti si sono allontanati pur senza atti formali. Basta dialogare con i dirigenti scolastici per sapere che un conto sono i processi in atto e un altro i dati formali degli abbandoni intesi come se rappresentassero tutta la dispersione scolastica. Fare finta che il perimetro del fenomeno sia quello, significa chiudere gli occhi sulla realtà. Non si può dire che un ragazzo o una ragazza che a scuola si vede pochissimo non sia in una situazione di dispersione… Le percentuali cambiano moltissimo a seconda di quello che considero “dentro” la dispersione.

La realtà invece che perimetro ha?

La realtà – considerando anche le non frequenze, le ripetenze, i ripetuti cambiamenti di scuola, se andiamo a vedere quanti davvero si diplomano nei tempi canonici – è che la dispersione scolastica riguarda un numero enorme che possiamo stimare, sulla base di affondi fatti sul campo in diversi territori (attraverso l’analisi dei documenti forniti dagli istituti scolastici), tra un terzo e un quarto degli alunni. Ovviamente le disparità territoriali possono essere molto forti. Se invece decidiamo di concentrarci – come chiede l’indicatore europeo più utilizzato – sui 18-24enni che non hanno un titolo di studio superiore alla secondaria di primo grado (la vecchia”scuola media”)… cosa possiamo dire? “È come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati”. Si tratta di un dato che fotografa una situazione, ma non consente di intervenire. Un intervento su un 24enne è molto complesso, specie in mancanza di politiche pervasive per l’alfabetizzazione e la formazione degli adulti. E allora domandiamoci: misuriamo per capire come intervenire, per prevenire o per poter dire che stiamo migliorando? Il problema grosso è anche la mancanza di un approccio complessivo e le politiche messe in campo a livello di istituto o locale sono più che altro curative, mentre non ci sono – o sono residuali – le politiche preventive.

Fare finta che il perimetro del fenomeno sia quello degli abbandoni o degli Elet significa chiudere gli occhi sulla realtà. C'è un tema di definizione. Nella realtà la dispersione riguarda tra un terzo e un quarto degli alunni. Allora chiediamoci: misuriamo per capire come intervenire e per prevenire o per poter dire che stiamo migliorando?

Federico Batini

Quali altri problemi vede?

Vedo un problema relativo alla continuità degli interventi. Moltissime azioni di contrasto alla dispersione scolastica sono progetti di alcuni mesi, un approccio che non può essere efficace: con un progetto di alcuni mesi puoi rimotivare alcuni ragazzi, superare qualche nodo, ma non si riesce a cambiare il destino scolastico di una quantità di studenti adeguata alle risorse (seppur insufficienti) complessivamente investite. Bisogna assumere entrambi gli approcci, curativo e preventivo. Ci vuole senza dubbio un intervento su quelli che stanno già disperdendosi ma devo anche fare in modo che i dispersi ogni anno siano meno, altrimenti diventa una reiterazione: “scavare buche, riempire buche”. La maggior parte delle risorse dovrebbe concentrarsi sulle politiche di prevenzione che hanno mostrato efficacia (possibilmente sulla base di evidenze). Ritengo inoltre preferibili gli interventi preventivi relativi alla dispersione che non riguardino soltanto “alcuni” ragazzi ma tutta la classe.

E come si fa la prevenzione della dispersione scolastica?

Da una parte c’è il tema della didattica e della valutazione, su cui ci sarebbe moltissimo da fare perché nella nostra scuola resistono ancora approcci tradizionali (il/la prof che spiega seguendo il libro di testo e dei ragazzi che studiano e ripetono). In questo caso non credo si possa parlare di didattica. Insegnare è una professione che richiede competenze specifiche. L'altro tema è quello della valutazione, un tema gigantesco: oggi la ricerca e l’analisi delle pratiche suggeriscono di integrare approcci improntati alla valutazione formativa, quella che concorre a ridefinire l’azione didattica e facilita gli apprendimenti dei ragazzi. Non scordiamoci che la dispersione è strettamente connessa al rendimento. Chi ha un rendimento negativo tende ad avere un cattivo rapporto con la scuola e questo è un problema gigantesco. A livello di sistema è necessario intervenire con una formazione adeguata sui (e con) i docenti e non rimandare l’adeguamento delle retribuzioni. Tutto questo è necessario. La dispersione scolastica ha un aggettivo chiaro, scolastica: dice che anche se le motivazioni si trovano, ovviamente, anche fuori… l’attore principale rimane il sistema di istruzione che non può, non riesce (e in alcuni casi potremmo dire “non vuole”) accogliere tutti.

La maggior parte delle risorse dovrebbe concentrarsi sulle politiche di prevenzione che hanno mostrato efficacia (possibilmente sulla base di evidenze). Ritengo inoltre preferibili gli interventi preventivi relativi alla dispersione che non riguardino soltanto “alcuni” ragazzi ma tutta la classe. La dispersione scolastica ha un aggettivo chiaro, scolastica: dice che anche se le motivazioni si trovano, ovviamente, anche fuori… l’attore principale rimane il sistema di istruzione che non può, non riesce (e in alcuni casi potremmo dire “non vuole”) accogliere tutti

Ma nello specifico, quali azioni sono più efficaci?

Per prevenire la dispersione scolastica bisogna andare a lavorare su quelle competenze e abilità che sono indispensabili per il successo formativo: se ho bassa comprensione del testo scritto o orale, ad esempio, non posso andare bene a scuola. Se ho una capacità attentiva di pochi minuti, non posso funzionare in un sistema che mi richiede tempi lunghi di attenzione sostenuta. Purtroppo se provengo da situazioni socioeconomiche svantaggiate, ho una probabilità enorme in più di avere insuccesso scolastico, scarsa frequenza ecc. proprio perché non ho acquisito le conoscenze e abilità che poi mi permetteranno di sviluppare le abilità, conoscenze e competenze strategiche per avere successo formativo. La scuola deve concentrarsi sul rimuovere gli ostacoli, come recita il dettato costituzionale. Alcune abilità che i bambini hanno all’ultimo anno di scuola dell’infanzia sono predittive del loro rendimento alla scuola secondaria… Possiamo osservare già enormi differenze di curiosità e di stimoli ricevuti, ma anche nel linguaggio produttivo e ricettivo, nelle competenze di base e nelle abilità cognitive di base. Conoscere i risultati della ricerca educativa empirica, realizzata sul campo è importante. La selezione degli approcci progettuali non si può basare sul gradimento dei progetti, servono approcci evidence based: alcune cose su ciò che funziona si sanno, faccio due esempi.

Quali?

Negli anni '90 abbiamo conosciuto varie mode, tra cui i corsi di scacchi a scuola, si diceva che facilitassero la logica e il pensiero strategico, che avvantaggiassero nelle discipline scientifiche. Alcune revisioni di studi paiono invece indicare che le abilità acquisite giocando a scacchi non siano trasferibili in contesto scolastico. Invece la ricerca ha dimostrato che le didattiche attive partecipative, centrate sugli studenti e sul loro ruolo attivo rivestono un ruolo importante nell’apprendimento: ovviamente se tutta la didattica (o gran parte di essa) è impostata in modo diverso. Un altro esempio curioso di approcci inclusivi che hanno effetti sulle abilità di bambini e ragazzi possono essere i giochi da tavolo non aleatori (Dixit o Timeline sono i più conosciuti). Con il mio gruppo di ricerca, da oltre dieci anni, lavoriamo sull’inserire nei sistemi di istruzione la lettura ad alta voce quotidiana di storie da parte degli insegnanti, la utilizziamo dal nido alle secondarie di secondo grado. Gli insegnanti – non è affare solo della prof di italiano – leggono quotidianamente storie per i loro studenti, anche per i 16enni. Abbiamo dimostrato che già dopo tre mesi di lettura ad alta voce quotidiana rsi possono osservare incrementi delle abilità di comprensione verbale, effetti significativi sulle abilità cognitive di base, misurate prima e dopo, con gruppi di confronto. È qualcosa che rispetto ai bambini più piccoli era già noto, stiamo dimostrando, tuttavia, che questi vantaggi – se l’attività è fatta sistematicamente e con un metodo specifico che proponiamo- arrivano anche lavorando con ragazzi grandi, anche se hanno già incontrato difficoltà scolastiche. Si riesce ad agire sull’area cognitiva, linguistica, emotiva, di comprensione scritta e orale, sulle abilità di scrittura, sui domini motivazionali, addirittura nei più piccoli abbiamo raccolto evidenze circa i benefici sulle abilità motorie… La Regione Toscana ha avviato, in collaborazione con il mio gruppo di ricerca, una politica educativa per l’inserimento della lettura ad alta voce, denominata “Leggere forte”, proprio con lo scopo di prevenire la dispersione scolastica: siamo al quarto anno.

La selezione degli approcci progettuali non si può basare sul gradimento dei progetti, servono approcci evidence based: alcune cose su ciò che funziona si sanno, faccio due esempi. L'utilizzo nella didattica di giochi da tavolo non aleatori e la lettura ad alta voce quotidiana di storie da parte degli insegnanti

Qual è secondo lei il ruolo di altri soggetti educativi, delle comunità educanti?

Quello di comunità educante è un concetto molto utilizzato, ma che a mio parere occorre ridefinire, per almeno tre ragioni. Innanzitutto le comunità non possono essere definite più come una volta, non sono più – o non necessariamente – territorialmente definite. Il fatto che oggi ci siano i social e il web, cambia il concetto stesso di comunità. Qual è la comunità di riferimento per un 12enne o un 15enne che gioca alla Play con amici australiani e che parla di più con loro che con i suoi compagni di classe? Non è detto che la sua comunità sia totalmente quella del suo territorio. Su questo dobbiamo smettere di parlare da adulti, dobbiamo pensare che loro sono i protagonisti ed ascoltarli. Ad agire pensando di portare a loro il nostro mondo ci abbiamo già provato, non mi pare che abbia prodotto risultati soddisfacenti. Certamente in alcuni territori servono interventi di quartiere, con luoghi significativi per l’accoglienza dei ragazzi, con centri educativi che non siano semplici “doposcuola” in cui fare i compiti, ma dove si possano trovare una serie di attività stimolanti (dalla lettura ad alta voce, al coding, dal gioco non aleatorio alla musica…) e di occasioni di protagonismo ed espressione che possano compensare l’eventuale mancanza di stimoli e occasioni del contesto di provenienza (per esempio l’esperienza di QBR uno spazio educativo innovativo ideato dall’Associazione Pratika va in questa direzione). Gli spazi fisici sono comunque importanti: banalmente anche la strada che fai andando a scuola può convincerti o no ad andare a scuola. Trovo molto retorico invece riferirsi alla responsabilità delle famiglie: conosciamo tutti i tassi di analfabetismo di ritorno. Se delego alla famiglia alcune pratiche, non farò altro che perpetuare i divari esistenti. Questo è il motivo per cui, per dire, ci occupiamo della lettura ad alta voce fatta a scuola e non a casa. Il coinvolgimento delle famiglie è utile, certamente, ma è un’azione progressiva che deve fare la scuola cominciando sin dalla scuola infanzia, perché successivamente – già alla secodnaria di I grado – dialogano con la scuola soprattutto i genitori che “ne hanno meno bisogno”. Il terzo nodo è la difficoltà oggettiva di cooperazione all’interno dei territori: una scuola con un/una dirigente bravo, con insegnanti motivati, con un gruppo che ci crede… ha bisogno comunque di un tempo lungo, di cinque/dieci anni per costruire un vero tessuto comunitario attorno alla scuola. È un percorso lungo. Non che non vada iniziato, però dobbiamo sapere che i tempi sono questi… e intanto attrezzarci con il resto.


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