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Devora Kestel

La funzionaria dell’Oms: «A Trieste ho imparato il valore della comunità e dei diritti»

di Veronica Rossi

Quando si parla di disturbi psichici, secondo la direttrice del dipartimento di Salute mentale e abuso di sostanze dell'Organizzazione mondiale della sanità, è importante mettere al centro i diritti delle persone e ricordarsi del ruolo della comunità nel processo di inclusione; in questo, l'esperienza triestina ha fatto scuola

«Uno stato di benessere in cui ogni individuo possa realizzare il suo potenziale, affrontare il normale stress della vita, lavorare in maniera produttiva e fruttuosa e apportare un contributo alla sua comunità». È questa la definizione che l’Organizzazione mondiale della sanità – Oms dà della salute mentale. Non si tratta, quindi, di semplice assenza di malattia mentale. È un concetto più complesso e articolato, che riguarda il singolo, ma anche la collettività. Va da sé, quindi, che le buone pratiche non si possano limitare all’aspetto medico e farmacologico, ma debbano coinvolgere l’intera società, in un paradigma di inclusione e di tutela dei diritti umani. La pensa così Devora Kestel, direttrice del dipartimento di Salute mentale e abuso di sostanze all’Oms di Ginevra, da poco ospite al convegno in memoria dello psichiatra Franco Rotelli, scomparso a marzo, «Toccare la terra. Bagnare le rose. Cambiare le cose», tenutosi nell’ex manicomio di San Giovanni a Trieste il 6 maggio.

Qual è la posizione dell’Oms rispetto al modello italiano in salute mentale?

Noi non abbiamo una posizione rispetto a nessun modello, anche perché non so se esista un modello italiano in quanto tale. Possiamo dire che alcune esperienze sviluppate in Italia, culminate nell’approvazione della Legge 180, sono servite a capire che esiste la possibilità di prendersi carico della salute mentale e di chi ha bisogno di aiuto senza ricorrere al manicomio, alla reclusione di persone che hanno una sofferenza o un vissuto diverso e che necessitano di qualche tipo di cura. Questa concezione è stata portata avanti a Trieste, poi altrove: è un modello che è stato replicato inizialmente e poi modificato – forse migliorato, non saprei – in altri Paesi. L’Oms raccoglie in tutto il mondo esperienze positive sulla salute mentale, tra cui indubbiamente quella di Trieste e altre realtà italiane. Che però è un’altra cosa rispetto a parlare del «modello italiano».

Qual è, secondo l’Oms, il miglior approccio alla salute mentale?

Tutto ciò che si è imparato a Trieste e in altre città italiane è molto valido perché permette lo sviluppo di una rete di servizi specializzati in salute mentale a livello di comunità, che non prevedano la chiusura e l’isolamento, ma che siano inseriti all’interno della società, con una preoccupazione per il benessere delle persone in tutti gli ambiti, dall’inclusione lavorativa alla scuola. Un’altra cosa che abbiamo imparato a Trieste è l’importante ruolo delle cooperative sociali e delle imprese sociali: è la collettività che si occupa di creare occasioni per la salute mentale, non solo per la cura della malattia mentale. Ovviamente ora stiamo parlando dell’Italia, ma ci sono altri 193 Paesi membri e buona parte di questi non ha le risorse che ha l’Europa: per loro bisogna immaginarsi soluzioni e modalità per affrontare le sfide che li caratterizzano.

In quali Paesi avviene una presa in carico che possa essere definita virtuosa?

Nell’ambito della salute mentale è difficile identificare degli interi Paesi: non ce n’è uno che, per intero, possa essere preso a modello. Non che io sappia o che l’organizzazione sappia, almeno. Esistono delle realtà piccole o grandi – città, Regioni, Province – che hanno sviluppato dei modelli che funzionano. La nostra sfida è ed è stata identificare più buone pratiche, in modo tale che altri possano imparare da esse e, magari, migliorarle. Da poco, per esempio, sono stata in Zimbabwe, dove c’è l’esperienza di uno psichiatra che fa formazione specifica alle donne per strada, loro si siedono sulle panchine, ascoltano, interagiscono, intervengono. Questo modello, in quel contesto, ha funzionato e ha dato buoni risultati. In India c’è un progetto molto conosciuto che ha fornito soluzioni di residenzialità a persone senzatetto con problemi di salute mentale.

Un’altra cosa che abbiamo imparato a Trieste è l’importante ruolo delle cooperative sociali e delle imprese sociali: è la collettività che si occupa di creare occasioni per la salute mentale, non solo per la cura della malattia mentale

Devora Kestel

In questo, qual è il ruolo dell’Oms?

Lavoriamo in collaborazione con gli Stati membri, coi loro ministri della Sanità. Nell’ambito della salute mentale c’è un piano specifico, approvato nel 2013. Noi appoggiamo i Paesi nello sviluppo e nell’implementazione di piani e nella formazione, per far sì che ci siano degli strumenti da utilizzare, al di là delle risorse che ognuno ha, cerchiamo di facilitare la risoluzione dei problemi e la ricerca di soluzioni. Effettivamente, in alcuni ambiti abbiamo utilizzato l’esperienza di certe Regioni italiane: quello che si teorizza oggi, effettivamente, è in parte quanto ho appreso quando mi trovavo a Trieste 30 anni fa.

Quindi lei ha vissuto in Italia?

Ho vissuto per dieci anni a Trieste, lavorando nei servizi di salute mentale locali.

Ed è per questo che, al convegno in ricordo dello psichiatra Franco Rotelli, si è commossa durante il suo intervento?

Senz’altro. Io ho avuto il privilegio e la fortuna di conoscere Franco Rotelli e la sua mente brillante e lungimirante. Questo mi ha sempre impressionata e mi impressiona ancora: 20, 30 anni fa ha detto delle cose che sono ancora valide, anzi forse più valide ora che all’epoca. Ho sempre avuto una grande ammirazione per lui, mi ha influenzato: alcune cose che oggi diciamo come Oms sicuramente vengono da un mio vissuto, una mia visione che in qualche modo ha incorporato quello che ho avuto la fortuna di imparare tanti anni fa.

Ci fa qualche esempio in questo senso?

Ci ho pensato un bel po’, preparandomi per il convegno. Ho imparato una profonda concezione dei diritti degli individui, che spesso non vengono rispettati, perché hanno meno peso della diagnosi e della malattia mentale; ho appreso, quindi, il valore di proteggere questi diritti, di promuoverli e di far sì che non vengano violati. Chi ha un disturbo mentale, spesso, vive uno stigma e una discriminazione molto forti, si dice che è pazzo, che va rinchiuso, non viene creduto o considerato. Un altro elemento che ho osservato da vicino è la deistituzionalizzazione: ho avuto il privilegio di lavorare con Rotelli nei primi passi di trasformazione dell’ospedale psichiatrico di Udine e alcune mosse mi parevano geniali: le persone, per la prima volta, potevano gestire le loro pensioni, che non gli venivano tolte e controllate dal direttore. Lui è stato bravo anche a vedere il ruolo delle altre persone nella salute mentale – falegnami, artisti, stilisti, volontari che come me venivano da tutto il mondo – e apertamente dare luoghi e possibilità di ascolto: attraverso questi nuovi arrivi dall’esterno si riusciva a evitare il rischio di una cronicizzazione della malattia mentale.

Secondo lei, l’innovazione in salute mentale dipende da alcuni medici geniali o può essere insegnata?

Non credo che ogni giorno succeda che si incontrino nello stesso luogo due menti brillanti come quelle di Franco Basaglia e di Franco Rotelli; alcune cose, però, si possono insegnare, perché abbiamo avuto la fortuna di avere loro che ci hanno aperto gli occhi su alcune pratiche, che ora conosciamo e possiamo trasmettere. Ed è anche questo il nostro ruolo, come organizzazione, far sì che queste informazioni, questa ricchezza, non rimangano isolate ma vengano diffuse nel mondo. Non è così scontato, perché insieme alla volontà e all’interesse di insegnare l’innovazione c’è anche la tradizione, che implica una formazione in cui l’unica cosa importante è l’uscita dal percorso, non la capacità di riflettere, di porsi delle questioni.

Foto in apertura da YouTube


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