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Medio Oriente

La guerra tra Israele e Hamas fa nuovi sfollati nel Sud del Libano

Gli scontri tra i miliziani di Hezbollah e l’esercito israeliano, nel Sud del Libano, hanno già fatto 55mila sfollati interni e oltre 80 vittime, tra loro anche civili. «Nessuno esce di casa o dalle tende dei campi profughi informali», dice Francesca Lazzari, responsabile Paese per fondazione Avsi. «Le scuole sono chiuse dall’inizio del conflitto. Si percepisce la paura concreta che da un momento all’altro la situazione possa degenerare»

di Anna Spena

La guerra non è un fatto isolato. I conflitti funzionano come le gocce d’acqua che cadono dentro le pozzanghere: da un lato le riempiono, dall’altro, le pozzanghere, le allargano. Dopo quasi due mesi di guerra tra Israele e Hamas i numeri del conflitto sono drammatici e non restituiscono fino in fondo la situazione tragica a cui sono costretti i civili. I morti palestinesi nella Striscia di Gaza hanno superato i quindicimila, tra loro oltre 6mila bambini. Sono 1.200 i civili uccisi dall’organizzazione terroristica Hamas e diversi gli ostaggi ancora nelle sue mani.

Cosa sta succedendo in Libano

Il conflitto tra Israele e Hamas non si è limitato alla Striscia di Gaza. Negli ultimi due mesi si sono intensificati gli attacchi e gli scontri nei territori occupati della Cisgiordania e si è riacceso il conflitto su un confine caldissimo, così caldo che da anni è presidiato dalla Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite – Unifil: il confine tra il Nord di Israele e il Sud del Libano, roccaforte di Hezbollah. Al 21 novembre, il ministero della Sanità libanese ha riportato un totale di 85 morti e 357 feriti a causa degli scontri armati su quel confine. Questo numero comprende sia combattenti che civili. 

Fotografia di un Paese in crisi

Il Libano sta attraversando una crisi economica e sociale senza precedenti. Nel Paese vivono circa 490mila rifugiati palestinesi, a questi si aggiungono altri 30mila che sono arrivati però dalla Siria. Secondo le stime del governo il Paese ospita anche 1,5 milioni di rifugiati siriani, solo 815mila sono stati registrati dall’Unhcr. Il settore umanitario nel 2022 ha stimato che il 90% dei rifugiati necessita di assistenza umanitaria per far fronte ai bisogni primari. Per capire fino in fondo il peso di questo dato bisogna guardare ad un altro dato, quello dei cittadini libanesi, che ormai non raggiunge i cinque milioni di abitanti, ma anche in questo caso ci muoviamo nel campo delle stime: l’ultimo censimento della popolazione libanese risale al 1932. La maggior parte dei siriani in Libano non è riconosciuto dal governo, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui profughi, dunque non riconosce lo status di rifugiato, per questo non ci sono campi profughi strutturati. Una volta il Paese era chiamato la Svizzera del Medio Oriente. Le cose hanno iniziato a cambiare con la guerra civile tra il 1975 e il 1990, e poi il conflitto con Israele nel 2006. La situazione è precipitata, quasi fino al collasso, nell’ottobre del 2019 quando sono partite le proteste di piazza in risposta all’incapacità del governo di trovare soluzioni alla crisi economica. Si stima che l’80% della popolazione libanese viva in situazione di povertà, e circa il 36% al di sotto della soglia di povertà estrema. 

La guerra in Libano e i nuovi sfollati

«Oggi sono circa 55mila gli sfollati interni del Paese», racconta Francesca Lazzari, rappresentante Paese di Fondazione Avsi. «Il conflitto qui è iniziato lo scorso otto ottobre. E da quel giorno abbiamo assistito a un’escalation consistente, da entrambe le parti, degli attacchi. Le famiglie che si trovano nelle aree più vicine al confine, che siano siriane o libanesi, hanno cercato rifugio nelle zone più a Nord del Paese. Ma è difficile tenere traccia degli spostamenti. In molti casi gli uomini rimangono nella zona perché devono continuare a lavorare. Questa è la stagione della raccolta delle olive, che è molto importante per diverse zone al confine. L’agricoltura è la prima forma di sostentamento per il Sud del Paese».


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Fondazione Avsi è presente in Libano dal 1996, l’ong era arrivata per far fronte all’emergenza socio-sanitaria del dopoguerra e per promuovere progetti in educazione. Oggi la maggior parte dei progetti provano a rispondere alla grave crisi economica e sociale per garantire accesso all’educazione e opportunità di formazione e lavoro ai rifugiati e alle comunità libanesi ospitanti. L’ong organizza corsi di formazione professionale, propone attività educative e di sostegno psicosociale per i bambini siriani e si occupa della distribuzione di beni di prima necessità come acqua, cibo e vestiti.
Con il progetto del sostegno a distanza oggi supporta 1300 minori – siriani e libanesi – e le loro famiglie. E continua a farlo dopo lo scoppio del conflitto (è possibile sostenere le loro attività a qui: Desideriamo la pace in Libano).

La fondazione è particolarmente attiva nella piana di Marjayoûn dove ha mappato 82 insediamenti informali e dove ha costruito il centro Fadai, un punto di riferimento per la popolazione dell’area che offre risposte ai bisogni della comunità: uno spazio d’incontro per i giovani, servizi psicopedagogici per i bambini e le loro famiglie, corsi di alfabetizzazione per le donne, formazione professionale per gli agricoltori. «Anche quello potrebbe essere colpito», spiega la rappresentante Paese, «potrebbe essere colpito. C’è tantissima paura tra le persone». Marjayoûn, così come i distretti di Nabatiye, Tiro, Bentjibal sono quelli direttamente coinvolti dal conflitto. Chi è rimasto nei campi profughi, per paura, non esce più dalla sua tenda. I libanesi rimasti al Sud, rimangono chiusi in casa. «In questo momento», spiega Francesca Lazzari, «sono tutti vittime del conflitto.

I minori, le prime vittime

Da quasi due mesi tutte le scuole nel Sud del Libano sono chiuse. «La popolazione non esce di casa. Gli attacchi sono continui. E anche noi stiamo rivedendo i nostri interventi soprattutto per i minori, che di fatto non sono hanno mai cominciato il nuovo anno scolastico. Abbiamo contattato le famiglie che seguiamo per capire quali sono i nuovi bisogni emersi dopo lo scoppio del conflitto. Hanno bisogno di carburante, che qui non serve solo per spostarsi, ma anche per riscaldarsi e cucinare. Tutto funziona solo con i generatori privati, l’elettricità pubblica è disponibile per due ore al giorno. Parliamo di famiglie che vulnerabili lo erano già prima del conflitto. L’altro bisogno emerso è il supporto per i genitori che non sanno come spiegare ai loro figli spaventati dal rumore delle bombe quello che sta succedendo. Quindi abbiamo attivato gruppi di sostegno psicologico da remoto e attività ricreative per i minori. Per non far perdere ai bambini l’anno scolastico stiamo provando a portare comunque avanti i programmi didattici. Ma la verità è che tutti vivono, percependo sulla loro pelle, il rischio e la paura concreta che da un momento all’altro la situazione possa degenerare».


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