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Sostenibilità

L’Agenda 2030 dell’Onu? Mancare gli obiettivi sarebbe un atto di irrazionalità politica

Rilanciare l'Agenda 2030 per garantire il nostro futuro sul pianeta: è il messaggio che arriva dal vertice Onu. Ed è una necessità per evitare il collasso del sistema. Per l'Italia, poi, imboccare la strada della sostenibilità sarebbe un'opportunità straordinaria di rilancio, un programma che la società civile potrebbe fare proprio. «Chi fa volontariato tocca i problemi con mano e sa bene che è tutto collegato: tutelare l'ambiente equivale a occuparsi di diritti umani e di pace», parola del diplomatico italiano Grammenos Mastrojeni

di Elisa Cozzarini

Se in questi giorni si è parlato dell’Assemblea Generale dell’Onu a New York, non è stato per affrontare uno degli argomenti principali del summit: l’attuazione dell’Agenda 2030, con i suoi 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sdg) da raggiungere con un orizzonte ridotto ormai a soli sette anni. Il segretario generale António Guterres ha sottolineato che il mondo è tristemente fuori strada ed è necessario invertire la rotta. «Gli Sdg non sono solo un elenco di obiettivi. Portano con sé le speranze, i sogni, i diritti e le aspettative delle persone di tutto il mondo», ha dichiarato. A oggi solo il 15% dei traguardi fissati dall’Onu nel 2015 è rispettato, mentre il resto va a ritroso. Ciò che manca, forse, è la comprensione stessa della novità radicale che porta l’Agenda 2030 per la sostenibilità. Nel suo ultimo libro “Vola Italia. Ridare le ali a un Paese insostenibile” (uscito per Città Nuova), il diplomatico italiano Grammenos Mastrojeni, esperto di sostenibilità, spiega con chiarezza il senso di questo grande programma planetario. 

Ci spiega come interpretare la discussione sugli SDG? 

C’è una scollatura di razionalità: continuiamo a prendere decisioni che sembrano razionali e che invece ci hanno portato, ora, a una situazione davvero preoccupante, in un certo senso surreale. L’intero sistema globale è sull’orlo del collasso, se consideriamo l’ambiente, il clima, la sicurezza… Ma facciamo un passo indietro. Pensiamo a tutte le speranze che avevamo dopo il crollo del Muro di Berlino. Ci eravamo liberati dall’incubo di un conflitto nucleare e non abbiamo mai preso sul serio l’idea che facciamo parte di un sistema che potrebbe arrivare a un punto di rottura. Il summit ha dovuto prendere atto di questa scollatura. Potrebbe essere un salutare richiamo a fare un passo indietro e a considerarci come comunità globale e come pianeta, agendo di conseguenza.

È l’invito che fa ai lettori del suo libro…

Il mio è un tentativo di richiamare le basi di una razionale condotta della politica, in una fase in cui una transizione è assolutamente necessaria. Delineo un programma per l’Italia, l’unico di grande respiro che abbiamo oggi. La differenza rispetto ai altri tanti tentativi in campo, compreso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, è che cerco di esaminare la questione su basi scientifiche.

Perché c’è ancora l’idea di dover scegliere tra natura e sviluppo? Tra ambiente e benessere della popolazione?

Il sistema attuale è organizzato come se i quattro valori fondamentali: pace, ambiente, sviluppo economico e diritti umani, fossero contrapposti, come se realizzare l’uno fosse possibile solo sacrificando l’altro. E la priorità va sempre allo sviluppo, anche a costo di spremere la natura oltre misura o di comprimere la dignità delle persone, magari ritenendole fasi transitorie, perché poi ci saranno le risorse per compensare gli squilibri. Ma questo approccio si è rivelato completamente sbagliato. La novità della sostenibilità è l’aver compreso che è vero proprio il contrario: quanto più si proteggono i diritti dell’uomo tanto più c’è sviluppo, e così se assicuri stabilità all’ambiente, etc. È il filo conduttore della proposta che faccio all’Italia. Siamo un Paese molto particolare sotto questo profilo perché, in un’economia classica, noi siamo poveri di risorse. In un’economia che si basa invece sull’idea di valorizzare tutto il potenziale delle persone e dei territori, nessun altro è più ricco. 

Il programma che traccia nel suo libro, però, non risponde alle regole della politica, che richiede soluzioni semplici e risultati immediati. Come fare?

I politici sono in gioco sul mercato del voto, che si vince facendo promesse facilmente comprensibili, che fanno appello a una risposta istintiva e si possono realizzare entro il breve ciclo elettorale. Ma queste convinzioni si possono scardinare. Innanzitutto possiamo dimostrare che i vantaggi di un approccio sostenibile, anche se sembrano a lungo termine, si verificano molto presto, anche all’interno del ciclo elettorale. Soprattutto, possiamo far leva sulla parte sana dell’Italia, quella che ci fa ancora navigare, che cerca il dialogo politico vero, ragionato. La troviamo nella società civile, nelle persone che si impegnano nel volontariato. Il problema è la frammentazione di questo mondo in un’infinità di fronti e ambiti che non si incontrano. Se si riuscisse a fare un appello a coloro che compongono questo grande universo, persone disponibili ad ascoltare, a discutere, a mettersi in gioco, più che a dare un voto d’istinto, nascerebbe un bacino elettorale di straordinaria potenza, non solo numerica, ma anche per disponibilità ad assumere impegni. Questo può fare la differenza.

La parcellizzazione del mondo della società civile è in qualche modo riconducibile al nostro pensare per compartimenti stagni, dimenticando la sostenibilità che riesce a tenere insieme il tutto?

La sostenibilità è un concetto che i nostri avi conoscevano molto bene. È uscito dalla nostra prospettiva culturale. Penso, in realtà, che chi fa volontariato abbia molto chiara questa nozione, solo che, non potendo occuparsi di tutto, sceglie un ambito preciso. Ma in generale chi tocca i problemi con mano sa che è tutto collegato. Per esempio: Greenpeace significa “Pace verde” ed è nata negli anni Settanta, quando la teorizzazione sulla sostenibilità e gli obiettivi interconnessi non esistevano. Esisteva l’intuizione che pace e ambiente fossero collegati. Emergency si occupa di salute nei contesti di conflitto e povertà. Insomma, credo che la società civile più o meno consapevolmente sia consapevole che ci sono alcuni nodi da sciogliere per poi risolvere tutto.

Tornando all’Agenda 2030, siamo in tempo, non solo come Paese, ma come Nazioni unite, a raggiungere gli obiettivi?

Pensando alle pratiche diffuse ora, qualcosa sta migliorando ma purtroppo il degrado avanza e non lo fa all’infinito, oltre un certo livello, c’è una soglia di collasso. Sono molto preoccupato. In questi pochi anni dovremo impegnarci per non dover gestire una situazione davvero complessa, come dice Guterres. 

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Il prossimo appuntamento importante è la Cop 28 di Dubai sul clima?

Sì. La conferenza procede con le sue logiche. Alcuni passi avanti vengono di solito meno celebrati di quanto si sottolineino invece i risultati non raggiunti. Ma, fuori, anche il mondo reale va avanti e il dato in assoluto più incoraggiante, per me, è che il mondo economico, che prima considerava l’attenzione all’ambiente e alla società come costi che deprimevano la competitività, adesso ha compreso che la sostenibilità conviene, anche perché, alla fine, fa guadagnare più soldi.

Questo potrebbe aiutare a mettere in atto il programma politico che traccia nel suo libro?

Esattamente. La scienza economica dimostra che quanto più agisce a vantaggio dell’ambiente e in ottica sociale, tanto più si diventa competitivi, perché ci sono vantaggi che compensano i costi. Questo è vero dappertutto nel mondo. Ma l’Italia, che ha un’economia basata sulla qualità del prodotto espresso dal territorio, ha un vantaggio ancora maggiore. Non è un caso che il concetto di sostenibilità, che non aveva questo nome, è nato proprio in Italia, da un’idea di Adriano Olivetti.

Foto: Grammenos Mastrojeni/Onu Italia


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