L’ultima volta che l’Italia conquistò una statuetta per il migliore film straniero correva l’anno 1999: La vita è bella stracciò la concorrenza; l’incontenibile Benigni, che saltellava giulivo da una poltroncina all’altra, era una bellezza. Una grande bellezza. Quindici anni dopo, il capolavoro di Sorrentino ha travolto l’America. In Italia c’è chi non lo ha apprezzato quando uscì nelle sale, ed è più che legittimo. La cosa grave è un’altra: molti critici, pur avendo capito che era una spanna superiore rispetto alla media cinematografica nazionale, hanno fatto finta di niente, pensando che accodarsi alla fila dei detrattori significasse fare più bella figura. È stato detto ad esempio –con molta malafede- che Sorrentino avrebbe imbastito un’operazione “paracula”: parlar male della Città Eterna allo scopo di fare molti incassi. La verità l’ha spiegata l’autore in molte occasioni, ma il più chiaro di tutti è stato Carlo Verdone, co-protagonista del film, in un’intervista a Francesco Merlo su Repubblica: «Roma è una città tutta sbagliata, biglietto da visita di un Paese tutto sbagliato. Sorrentino è stato bravo perché ha rimosso tutti i segni del fallimento mostrando che sotto c’è sepolta la grande bellezza». La giuria degli Academy Awards concorda al 100% col pensiero dell’attore romano: oltre ad aver notato la qualità complessiva della pellicola, questi signori hanno compreso l’onestà intellettuale del regista vomerese.
Aggiungiamo poi che Hollywood da sempre è innamorata di Federico Fellini e La grande bellezza –Sorrentino lo ha dichiarato pubblicamente, anche ieri sera mentre imbracciava la statuetta- si ispira alla lezione del Maestro riminese. Sotto diversi aspetti: la comune sensibilità onirica e allucinata; il racconto di una Capitale decadente, in un momento di passaggio epocale.
Ammettere l’influenza di un collega del passato non significa però considerarsi il suo erede. Su questo il vincitore vuole essere chiaro: da un lato perché il paragone con una tale sommità artistica gli pare improponibile; dall’altro perché, effettivamente, stiamo parlando di epoche diverse. Vero è che la città da lui raccontata è indolente e spaesata come lo era ai tempi de La dolce vita; altrettanto veritiero che entrambi i film si distinguano per una critica molto lucida della mondanità pacchiana nei salotti. Detto ciò, si tratta di due opere distinte e differenti.
È un film, quello premiato ieri al Dolby Theatre, con cui avverti subito da spettatore un’affinità elettiva; ti accorgi che l’autore ha espresso col linguaggio delle immagini quel che tu avevi già maturato da tempo. Milioni di persone hanno imparato a conoscere, e ad affezionarsi, allo stile di questo talentuoso artigiano della macchina da presa: nelle due ore e passa de La grande bellezza c’è pane per i denti degli aficionados di Sorrentino. Il quale, non pago di regalare al pubblico un’esperienza visiva indimenticabile, potenzia il tutto con pillole di alta letteratura (non a caso, è pure un romanziere di successo) che non annoiano mai, anzi arricchiscono l’uditorio. Poi la direzione magistrale degli interpreti: Toni Servillo è il miglior interprete italiano in circolazione (a questo punto possiamo dirlo, anche uno tra i migliori al mondo) ma nelle mani del “suo” regista supera davvero se stesso.
Così bravo che mette in ombra tutto il resto del cast: Carlo Verdone è sempre Carlo Verdone, ma da protagonista delle storie dirette da sé medesimo è molto meglio; Sabrina Ferilli è professionale come al solito, ma non era una presenza fondamentale in questo contesto. C’è però chi, come Roberto Herlitzka, non si lascia sorpassare nemmeno da Servillo: due vecchi leoni del teatro, che sanno come tenere la scena senza fregarsi l’un l’altro.
La grande bellezza, una sinfonia senza steccature. Una lezione di regia -specie nel finale, con le inquadrature di Roma che albeggia. Tanti giovani coltivano il sogno di diventare videomaker: certamente, guardare e riguardare con attenzione quei superlativi movimenti di macchina è già un buon punto di partenza.
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