Lavoro sociale

L’educativa domiciliare? È un imbuto all’incontrario

La solitudine come soluzione che le famiglie danno alle loro fragilità, comoda per tutti ma drammatica. Il fatto che non possiamo scegliere i dolori della nostra vita, ma possiamo scegliere come raccontarli. Le metafore dell'arredare il tunnel e dell'imbuto all'incontrario. Un dialogo con Andrea Prandin sui fondamentali dell'educativa domiciliare, ossia del «praticare speranza»

di Sara De Carli

«Entrare nella casa di una famiglia significa entrare in uno spazio estremamente intimo e delicato. Quasi sempre come educatrici domiciliari in quella abitazione non siamo state invitate. Non siamo state scelte. Lo scarto tra la nostra presenza in casa e i timori della famiglia, a volte è così ampio che è riduttivo rappresentarci come “poco gradite ospiti”». Come queste inizialmente “poco gradite ospiti” riescano a costruire “relazioni generative e utili” (e a diventare tutt’altro) è il segreto dell’educativa domiciliare: un servizio prezioso ma ancora un po’ invisibile, al centro del nuovo volume di Andrea Prandin e Francesca Magnabosco, dal titolo I fondamentali dell’educativa domiciliare (Erickson).

Più “mappa” che “cassetta degli attrezzi”, zeppo di metafore illuminanti e di rimandi per approfondire, esplicitamente consapevole che nell’educativa domiciliare (per quanto paradossale sia) spesso ci lavorano neolaureati con una struttura formativa specifica troppo fragile, questo piccolo volume è una guida per muoversi dentro un paesaggio (Calvino docet): quello familiare.

Prandin, che cosa significa oggi fare educativa domiciliare e lavorare con famiglie in situazione di fragilità e vulnerabilità (che è diverso dal dire famiglie fragili e vulnerabili)?

Intanto è un contenitore amplissimo, che lavora con le situazioni più disparate, tutte al confine tra possibilità e impossibilità, malessere e benessere. Chiaramente ci sono i sintomi più gravi, ma anche “nella media”, in quelle situazioni che proprio perché stanno nella media non vediamo, ci sono moltissimi problemi, moltissime situazioni di fragilità. Le famiglie di cui l’educativa domiciliare si occupa vivono movimenti di fragilità e vulnerabilità che sono di tutte le famiglie e che tutte le famiglie – compresa la mia – possono intercettare. Generalmente abbiamo in mente le situazioni che arrivano alla cronaca o quelle con incurvature vicine al reato, ma nelle famiglie medie ci sono tantissime incurvature maledettamente malinconiche, ingiuste, drammatiche… l’educativa domiciliare e la tutela minori le intercetta.

Andrea Prandin, formatore e supervisore di equipe multidisciplinari afferenti all’area Minori e Famiglie

Qual è la più diffusa, tra queste incurvature malinconiche ma diffuse?

La solitudine. Ho appena ascoltato la storia di una famiglia come tante, che potremmo incontrare ovunque, che magari conosciamo. Una coppia che di fatto è un incontro di due solitudini, con alle spalle storie individuali di dolore e povertà di cui nessuno sa nulla, due persone non particolarmente belle, non particolarmente intelligenti, senza particolari talenti, che si sono mosse dal luogo in cui sono nate per cercare qualcosa di meglio e si sono incontrate. Hanno generato un figlio e quello che possono offrire a questo figlio è la loro disperazione. Questo ragazzino di 13 anni va a scuola ma non è mai andato al mare. Sta a Milano e non ha mai visto il Duomo. Ce ne sono tantissime di famiglie così. Molto chiuse, molto isolate, molto sole. “Poiché nessuno ci vuole, ci facciamo compagnia da soli”, pensano. La solitudine è la risposta che hanno trovato al loro problema: le persone innanzitutto cercano una soluzione ai loro problemi dentro il perimetro di quello che hanno, ma spesso il repertorio delle possibilità è troppo limitato. La solitudine oggi è un problema e un dramma a tutti gli effetti, ma al mondo questa risposta che le famiglie da sole si danno piace perché queste famiglie non chiedono niente, non disturbano, non costano.

La solitudine oggi è un problema e un dramma a tutti gli effetti, ma al mondo questa risposta che le famiglie da sole si danno piace perché queste famiglie non chiedono niente, non disturbano, non costano.

Andrea Prandin

Un’educatrice domiciliare cosa può fare in queste situazioni?

Portare un po’ di mondo dentro. Con cautela, attenzione, delicatezza, perché quello è il loro mondo.

Perché un libro sui “fondamentali” dell’educativa domiciliare? Nell’introduzione dite che non avete voluto dare una “cassetta degli attrezzi” o scrivere un manuale, però anche nell’aspetto grafico del taccuino da viaggio questo è certamente un libro pensato per essere portato sul campo…

Per esplicitare i fondamentali di una professione straordinaria e per celebrarne la necessità e la complessità. Il primo fondamentale è il fatto che nell’educativa domiciliare facciamo tutto ciò che facciamo non per riparare un danno o per compensare una diagnosi: agiamo per giustizia sociale. Mobilitare il potenziale educativo delle famiglie e delle comunità – come si legge nelle Linee di indirizzo nazionali per l’intervento con bambini e famiglie in situazioni di vulnerabilità – è innanzitutto un’azione di giustizia sociale. Questo purtroppo è un concetto dimenticato in tanti contesti psicosocioeducativi, dove l’educativa domiciliare ha preso (o rischia di prendere) derive di tipo osservativo, di controllo, diagnostico… Un esempio paradigmatico è quello per cui un’assistente sociale dice all’educatrice di osservare se la famiglia usi o meno il seggiolino per il bambino in auto: se non lo mettono – questa è l’indicazione – non fare nulla, solo diccelo.  Ma l’educatrice non deve fare questo: se non lo mettono, deve fare accompagnamento. Questa è giustizia sociale, limitarti a vedere se la famiglia il seggiolino lo mette o no è controllo. È una tentazione che sta dietro l’angolo perché viviamo in una società performante, valutativa, abbiamo paura dei fragili e vorremmo ripararli più che sostenerli. Sono due posture diverse.

Nell’educativa domiciliare facciamo tutto ciò che facciamo non per riparare un danno o per compensare una diagnosi: agiamo per giustizia sociale. Spesso ce lo dimentichiamo, tentati da prospettive valutative, osservative, di controllo

Inquadrare l’educativa domiciliare in un quadro di giustizia sociale cosa significa esattamente?

Il mio punto di partenza è antropologico. In natura chi sta “sotto la media” viene abbandonato. I deboli vengono abbandonati perché rallentano il cammino: noi no, ci inventiamo dei modi per “tirarci dietro” chi nella sua traiettoria di vita non ha trovato gli strumenti “per stare al passo”. È una cosa che mi commuove. La scuola è un’espressione di giustizia sociale, così come una biblioteca. Vedere un disagio in questa ottica è diverso che vederlo in ottica patogenica. L’educativa domiciliare è prima di tutto un intervento di giustizia sociale: non ti offre determinate azioni perché “sei sfigato” ma perché sa che ti servono delle cose che da solo non intercetteresti. Mette a disposizione occasioni, capacità e potenzialità. Non chiede alle persone di adattarsi allo specialista.

Abbiamo paura dei fragili: vorremmo ripararli più che sostenerli

A volte l’educativa domiciliare è il primo servizio in cui viene mandato un neolaureato…

Da un lato le educatrici domiciliari sono pochissime, dall’altro è un servizio che tutti vogliono ma che nessuno coltiva. C’è poca letteratura, poca formazione. Spesso lo si pensa come “un contentino” da dare alle famiglie, pensando però che le cose importanti avvengano da un’altra parte, nei “centri”: noi abbiamo bisogno di mettere la cura in alcuni luoghi specifici, perché è più controllabile, mentre l’educativa domiciliare lavora al contrario.


Quindi, tornando ai fondamentali, uno è la giustizia sociale. L’altro elemento metodologico che sottolineate molto è il pensare per storie. Cos’è?

Amo molto un detto che più o meno dice così: “non possiamo scegliere i dolori della nostra vita, ma possiamo scegliere come raccontarli”. Pensare per storie è questo: trovare parole e fare collegamenti che ci permettano di dare significato alle cose, di riconoscere anche in quella fatica o in quel limite qualcosa di senso. Nella complessità, il pensare per storie è fondamentale, perché le storie riescono a dire quello che altrimenti non si riesce a dire: riescono a dire gli sconfitti, i perdenti, i paradossi, a unire luci e ombre, a pensare che tutti abbiano una dignità. È l’unico modo per celebrare l’altro. Siamo fatti di storie, abbiamo bisogno di dare un senso alle cose e per farlo abbiamo bisogno di storie… La speranza è che quelle piccole storie che abbiamo voluto inserire nel libro facciano venire in mente altre cose, come un grande imbuto al contrario: un imbuto che amplifica i collegamenti e moltiplica le possibilità. Pensare per storie salverà il mondo.

Non possiamo scegliere i dolori della nostra vita, ma possiamo scegliere come raccontarli. Pensare per storie è questo: trovare parole e fare i collegamenti che ci permettano di riconoscere anche nella fatica qualcosa di senso

Quindi è qualcosa che deve imparare a fare sia l’educatore, sia la famiglia?

L’educatore deve aiutare il minore e la famiglia a trovare una metafora comune, una storia che in qualche modo dia dignità anche a quel dolore, quella sconfitta, quella vergogna che provano… Con i bambini io per esempio uso tanto la metafora degli equilibristi: se leggi la tua famiglia come una storia di equilibristi, ecco che ne vedi le cadute ma anche il fatto che ci si rialzi, dentro una storia dinamica. Il dolore c’è, ma non ti inchioda lì.

“Arredare il tunnel”, che è un’altra metafora che usa nel libro: è questa cosa qui?

L’educatrice domiciliare incontra spessissimo famiglie che si trovano in un momento di grande fatica e dolore. Capita anche a lei di sentirsi in un tunnel buio, senza luce, in cui non sa da che parte iniziare e sembra non funzionare niente, come se tutto fosse bloccato dal dolore. Invece di voler uscire dal tunnel possiamo iniziare a provare ad arredare il tunnel. Arredarlo con qualche piccolo dettaglio di speranza. Non se usciremo da qui… la luce non la vedo neanche io, ma vedo che oggi tua mamma ci sta provando; vedo che oggi io e te siamo stati bene insieme. Siamo fatti di comico e cosmico e se non posso lavorare sul cosmico, possiamo lavorare sul piccolo, sui dettagli. A me piace chiamarlo “il dio delle piccole cose”.

Capita di sentirsi in un tunnel senza luce. Invece di voler uscire dal tunnel possiamo iniziare a provare ad arredarlo con qualche piccolo dettaglio di speranza

Per questo dice che «praticare speranza» è una delle azioni fondamentali dell’educatore domiciliare?  

Speranza è esattamente questo, pensare che c’è sempre una possibilità, una trasformazione possibile. Dire “tutto andrà bene” non è coltivare speranza: lo è il dire che lì fuori c’è un mondo che ti aspetta e che ci sono cose da scoprire. Belle o brutte? Non lo so. Ma sei atteso.

C’è un “fondamentale” di cui non abbiamo ancora parlato?

La trasparenza. Ci tengo moltissimo. Quando io mi occupo della tua vita, tenere per me come professionista alcune informazioni e non mettertele a disposizione è pura presunzione. Spesso ce le teniamo per noi dicendoci che la famiglia non può capire, ma il sottostante è sempre il pensare che io ne so più di loro sulla loro stessa vita: io, professionista erogo la cura e loro, famiglia la ricevono. La cura però è sempre tra le persone, non la può detenere nessuno. Essere trasparente con te anzi è giù un atto di cura, perché le persone si sentono rispettate. Trasparenza è una negoziazione continua tra quello che io penso e il tuo punto di vista e cambia moltissimo i linguaggi usati: è come cucinare in una cucina a vista, dove tu non solo puoi vedere quello che io sto preparando per me, ma mi dici se qualcosa di quello che sto preparando non va bene. È un atto etico che ha un grande potere curativo.

In foto, attività al Centro per le Famiglie di Macherio, in provincia di Monza Brianza, fiore all’occhiello della cooperativa sociale La Grande Casa

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