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Il caso Ferragni-Balocco

ll dono? È presenza che fa nascere cose

Nelle analisi attorno al Pandoro Pink Christmas torna con insistenza una constatazione: «Manca una cultura del dono». È vero? Che cos'è? Come possiamo farla crescere? In dialogo con il professor Ivo Lizzola, per cui occorre riscoprire la presenza (anche nel fundraising)

di Sara De Carli

C’è un giudizio ricorrente, nel mondo non profit, nelle analisi e nel chiacchiericcio attorno al Pandoro Pink Christmas di Balocco e Ferragni. L’errore o la malafede, la comunicazione o la disintermediazione, le tecniche di fundraising o di marketing, l’influencer o l’ambassador… ognuno avvia il ragionamento da un capo diverso ma poi alla fine tutti fanno un grande sospiro e concludono allo stesso modo: «Il problema vero è che manca la cultura del dono». 

Ivo Lizzola, docente di pedagogia sociale all’università di Bergamo, di riflessioni sul dono ce ne ha già regalate moltissime, ma siamo tornati a lui in questi giorni così particolari.

Professore, so che non è il suo. Ma che ne pensa di questo “pandoro gate”?

Penso che dobbiamo valutare in modo assolutamente positivo la reazione che c’è stata. Riuscire invece in questo tentativo di rendere mercato il dono e la solidarietà sarebbe stato uno choc culturale. Quindi bene la reazione, che invece ha ribadito chiaramente che non si può scherzare su queste cose. Chissà che questo mondo costruito sul muovere emozioni, sul rispondere a buon mercato a un bisogno identitario e di compagnia non sia stata svelato nel suo gioco e le persone tornino a fidarsi e ad affidarsi a persone in carne ed ossa, che sentono il tuo sentire, che sentono i tuoi desideri e le tue sofferenze e un pochino le ospitino in loro. Perché il dono è questo, ospitarsi l’uno negli altri, aprire la propria interiorità perché altre persone, altre storie, altre bellezze e altre fatiche del vivere entrino dentro di noi e lì si sentano bene.

Il dono è ospitarsi l’uno negli altri, aprire la propria interiorità perché altre persone, altre storie, altre bellezze e fatiche del vivere entrino dentro di noi e lì si sentano bene

È quindi un po’ come come se degli anticorpi “latenti” della società si fossero attivati. Ma ci manca davvero una cultura del dono? E che cosa vuol dire, al di là della lamentazione?

In questi giorni ho incontrato una serie di realtà bolognesi del Terzo settore. Nella discussione, molte sostenevano l’importanza della gratuità di determinati servizi: è vero, oggi molte famiglie vivono la povertà e quindi il tema della gratuità è importante. Ma questo richiamo alla gratuità non esprimeva in verità ciò che loro volevano dire, che non era la gratuità (ossia il non dover pagare) ma la generosità. La generosità è qualcosa di più della gratuità, perché ti fa essere lì presente e lascia che l’altro sia presente per come lui è. Il dono dona all’altro la possibilità di una presenza valorizzata, attiva, resa capace di dare. Attraverso la generosità, tu doni all’altro la capacità di dare. 

E quando accade questo? 

Quando costruisci una relazione basandola non sul bisogno dell’altro o sulla risposta al bisogno dell’altro, ma sull’incontro. Quando cioè costruisci una relazione di alleanza. Da questo punto di vista il dono è sempre relazionale. Il dono non è un bene che tu dai gratis, è mettersi in presenza dell’altro e consegnare all’altro la sua presenza, anche quando lui si sente indegno, incapace. Si dona il fatto che tu – incontrando l’altro – lo fai sentire un dono e circondato da doni. Il dono come relazione è certamente qualcosa che va riconquistato. 

Essere nel tempo del Natale rende questa riflessione di particolare attualità.

Questo è un Natale diverso dal solito. È un Natale freddo, che si vive nella solitudine e nel sospetto. Andiamo tutti verso il 2024 con timore: i giovani con la preoccupazione per l’ambiente e per il lavoro, gli anziani con il timore di dover rinunciare ulteriormente a relazioni ed attenzioni. L’elemento dominante è il non riuscire a sentirsi dentro un futuro condiviso e ad una vita comune vissuta insieme. Una cultura del dono allora oggi significa riconquistare la possibilità di percepirsi gli uni insieme agli altri: il dono è incontro, parola, telefonarsi e stare ad ascoltarsi, fare una passeggiata insieme, il vedersi come valore gli uni gli altri, l’essere un dono l’uno per gli altri. Le attenzioni. Il sentirsi atteso. Il sentirsi in una veglia gli uni per gli altri. È incontrarsi, prendersi e accompagnarsi. Donarci del tempo l’un l’altro, un tempo condiviso, il tempo di farsi una promessa o di ascoltare le nostalgie del passato. Io credo che questa settimane di feste vedranno tantissimi doni di questo tipo perché c’è un fortissimo bisogno di fermarsi, incontrarsi, recuperare il senso. 

La generosità è qualcosa di più della gratuità, perché ti fa essere lì presente e lascia che l’altro sia presente per come lui è. Nel dono, tu doni all’altro la capacità di dare 

Qualcuno è preoccupato perché finora gli italiani hanno avuto una cultura del dono, legata – per semplificare – ad una matrice cattolica o di sinistra. Quando però sarà passata l’ultima generazione che ha queste radici culturali, sarà la fine perché nel frattempo nessuno ha coltivato questa cultura del dono con altri valori, ispirazioni, linguaggi. Lei lo vede questo tema diciamo generazionale? 

Non sono così pessimista. Fra l’altro l’ultimo report dell’Istituto Italiano della Donazione diceva proprio della sensibilità al dono dei 14enni, con dati sorprendenti. Forse perché hanno il gusto del primo gesto, del gesto importante, che poi – presi dalle fatiche della vita – va perso. Certo è importante coltivarlo subito. Io vedo una particolare capacità di dono nei giovanissimi, negli anziani, nelle reti di famiglie. I più capaci di dono sono le famiglie fragili: non quelle troppo prostrate dalle difficoltà della vita, ovvio, ma nemmeno quelle troppo tranquille, risolte e benestanti. Lì c’è una capacità di dono meravigliosa. 

So che è un altro piano, ma quali di queste riflessioni sul dono possiamo condividere con chi si occupa di fundraising?

La raccolta fondi va benissimo se fa partecipare il donatore al senso del progetto per cui si raccolgono i fondi. Forse noi oggi abbiamo un po’ allontanato i sostenitori dal coinvolgimento personale: non si può pensare di aver fatto un dono solo perché abbiamo fatto un esborso economico del nostro di più. Psicologicamente la tentazione è questa. Invece il dono è sempre presenza che fa nascere cose. Se non c’è questo, scambiamo i mezzi con i fini e facciamo una mercantilizzazione del dono. 

E si può essere presenti anche come sostenitori di una causa o un progetto sociale? Come?

Le organizzazioni devono offrire strumenti per consentire al donatore di mettersi in presenza, anche rispetto a realtà molto lontane: certo che è possibile. Devono ingaggiare, permettere di seguire uno sviluppo dell’opera, far sentire dentro le storie degli altri. Questo piano è quello su cui insistere e forse oggi è un po’ da reinventare. Di questo va creata una cultura: dobbiamo creare modalità di costruzione di forme di vita comune, di presenze forti e attive, che diventino quasi “adozioni reciproche a distanza”, non unidirezionali. Alcune organizzazioni hanno già questo carattere nel modo in cui comunicano le loro attività, riescono a creare un collegamento tra azioni locali e azioni lontane, possibili proprio perché legate a piccoli gesti locali. 

Foto di Kira auf der Heide su Unsplash

Il podcast con Ivo Lizzola sulla cura

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